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lundi, 12 juillet 2010

Jünger, ribelle della modernità

Jünger, ribelle della modernità

di Marco Iacona

 
Fonte: Linea Quotidiano [scheda fonte]

Il 29 marzo del 1998, Ernst Jünger avrebbe dovuto compiere 103 anni. Il 17 febbraio dello stesso anno, tuttavia, si spegneva all’ospedale di Riedlingen nei pressi di Wilflingen nell’Alta Svevia, dove abitava da lungo tempo. I commenti sulla stampa dell’epoca furono quasi tutti di questo tipo: «È scomparso il testimone del Novecento». Nato nel 1895 ad Heidelberg, città dei filosofi, Jünger era stato protagonista degli eventi più importanti del secolo trascorso a cominciare dalle due guerre mondiali. Noto per esser stato parte essenziale di quella corrente di pensiero conosciuta come “Rivoluzione conservatrice tedesca”, ebbe interessi sterminati: dall’entomologia ai romanzi polizieschi di cui fu anche singolare autore (Eine Gefährtliche Begegnung – 1985). La raccolta dei suoi diari (di guerra, ma non solo), resta a detta di tutti un gioiello della letteratura del ‘900.

Una retrospettiva sull’attività del Nostro condurrebbe lontanissimo coincidendo, almeno in parte, con la storia d’Europa, fino ai primi anni del secondo Dopoguerra. Più utile una disamina sulle figure che Ernst Jünger ha saputo tratteggiare nel corso del suo interminabile percorso intellettuale. Cronologicamente è dal soldato che bisogna partire. Jünger va ricordato per averci trasmesso un’idea della guerra (ci riferiamo alla prima delle due guerre mondiali), che rimarrà come manifesto di uno spirito eroico per molti da imitare (ma a nostro giudizio inimitabile). Jünger mostra il lato della guerra che rifugge da un approccio morale; le sofferenze sono soltanto le sofferenze di un uomo in trincea, i morti non hanno nome, né famiglie ad attenderli, l’eroismo, in situazioni limite non può non prescindere dalla pietas e in sostanza dalla normalità dei sentimenti. Da questo punto di vista la sua opera più celebre e innovativa è In Stahlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio), un diario-romanzo, pubblicato a due anni dalla fine della Grande Guerra. Il giovane Ernst vi appare come l’uomo dell’obbedienza e del silenzio. C’è uno Stato Maggiore da qualche parte del Reich che somministra piani di guerra ai sottoposti e c’è un protagonista solitario d’un evento e d’un libro: il soldato che sconosce le decisioni prese dai superiori e le motivazioni di respiro strategico delle azioni intraprese. In Stahlgewittern è un libro moderno, si dice, poiché mostra senza perifrasi le conseguenze dei conflitti, appunto, moderni. È un libro pensato all’interno d’un cimitero in pieno giorno, quando nessuna immagine può sfuggire allo sguardo sul filo delle lapidi.

Gli europei stanno combattendo una guerra terribile che richiama alla mente una sola parola: coraggio. Quel che importa non è la solidità delle trincee ma l’animo degli uomini che le occupano. Nell’inferno del Vecchio Continente, la scoperta della Materialschlacht (la «battaglia dei materiali») è l’evento cardine nel processo di formazione delle idee jüngeriane, il valore individuale sembra annullato dallo strapotere della tecnica. La meccanizzazione della guerra e le conseguenze che ne discendono, saranno comprese dal soldato-Jünger in tutta la loro forza epocale. Si può essere ancora men without fear? È questo l’interrogativo che conta.

 

Finisce la guerra. Inizia la parentesi della repubblica di Weimar (1919-1933). Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt (L’Operaio. Dominio e forma – 1932) è l’opera teoretica più importante di questo periodo e forse di tutta la produzione jüngeriana. Attraversando temi e stili diversi Jünger è arrivato alla seconda figura importante: il tipo dell’operaio (o milite del lavoro). Essa non appartiene ad una classe e soprattutto non ha legami di continuità con i regimi storici pre e post rivoluzionari: il lavoratore non è il quarto stato, né custodisce al proprio interno valori esclusivamente economici. Nel lavoratore Jünger vede una «forma particolare agente secondo leggi proprie che segue una propria missione e possiede una propria libertà», un tipo a se stante dunque, il protagonista della modernità destinato a sostituirsi all’individuo e alla comunità. L’avanguardia di una nuova «forma» che non subirà alcun tipo di uniformazione. Nell’era dell’operaio, la massa non sarà più un agglomerato amorfo ma un insieme composto di cellule con una propria gerarchia di quadri. La volontà dei capi sarà la volontà di tutti e quest’ultima, espressione delle volontà particolari. L’idea jüngeriana del lavoro oltre ad eliminare le contraddizioni all’interno della società borghese darà all’uomo la libertà e la forza desiderate.

Cosa unisce il combattente delle trincee, con questa figura epocale? L’interrogativo non è ozioso. C’è in proposito una ricca letteratura. Nel libretto di Delio Cantimori: Tre saggi su Jünger, Moeller van den Bruck, Schmitt, per esempio, il milite del lavoro è l’asceta costruttore di una nuova società, «la cui rinunzia ad ogni personale sentimento e ad ogni motivo d’azione individuale, il cui contegno generale posson esser paragonati solo con quelli del soldato, del milite, come s’è presentato specie verso l’ultima epoca più meccanica della guerra mondiale». In realtà l’operaio è una figura limite.

 

Esso si delinea in senso essenzialmente dualistico: erede diretto del soldato, dell’asceta guerriero e principio cardine e chiave di lettura ontologica. Figura a un tempo storica e astorica: nato ma destinato a mai perire. Il soldato è una figura empirica, occasionale, l’operaio invece è una figura quasi metafisica. Eroi entrambi. L’uno legato ai fatti di guerra, l’altro simbolo d’una nuova era.

Soldato e operaio: due figure diverse dunque. Due entità poco confrontabili, misure e tempi che non coincidono. Ma c’è una cosa in comune: lo sforzo jüngeriano di eternizzare la posa del combattente, di trasferire lo spirito della vittoria nello spirito del dominatore civile, nell’uomo moderno tout court. In questo senso possiamo considerare Der Arbeiter un libro di guerra messo su in tempo di pace.

Al soldato s’addice la “tempesta” (l’alternarsi degli elementi: comincia a tempestare, finisce di tempestare…), l’operaio è invece legato all’“acciaio”, al panorama d’una modernità tipologica al confine tra fisica e metafisica.

Ma non è tutto. C’è uno Jünger del dopoguerra (quello superficialmente conosciuto come ribelle) che attraverso saggi e romanzi (Heliopolis - 1950, tanto per cominciare e anche l’arcifamoso Der Waldgang - 1951), tratteggia una figura se vogliamo ancor più complessa dell’operaio. Si tratta dell’anarca, o di colui che va incontro al bosco. C’è una dimensione a un tempo “naturale” ed escapista nello Jünger del secondo Dopoguerra (non dimentichiamo peraltro né la sua fama di contemplatore solitario né di studioso del regno degli insetti).

 

Dopo aver rappresentato la modernità con le sue cornici teorico-pratiche, dopo averci detto che nessuno sarebbe sfuggito al destino di lavoratore e uomo massa (seppur fosse nelle sue capacità il non farsi annullare da questa), l’uomo di Heidelberg decide di abbandonare le posizioni. C’è dunque una singolarità in questo terza figura jüngeriana. Quello che è stato chiamato il ribelle è in realtà un uomo che smette la «divisa» del combattente.

Del resto dopo averci detto verso quale abisso correva il genere umano (e dopo aver esplicitato a un tempo «forma» e rimedi), Jünger ha preferito occuparsi anche d’altro.

Quel che c’era da dire era stato già detto: l’eroe di guerra ha scelto di proseguire la vita cacciando farfalle.

 

 


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mercredi, 07 juillet 2010

Sobre el Nihilismo y la Rebeldia en Ernst Jünger

Sobre el Nihilismo y la Rebeldía en Ernst Jünger

 
Por Ricardo Andrade Ancic
 (Tomado de "El Valor de las Ruinas")
 
Ex: http://elfrentenegro.blogspot.com/

I

ernst_junger_en_1948.jpgErnst Jünger (1895-1998), autor de diarios claves sobre lo que se llamó la estética del horror, así como de un importante ensayo -El Trabajador- acerca de la cultura de la técnica moderna y sus repercusiones, está considerado, incluso por sus críticos más acerbos, como un gran estilista del idioma alemán, al que algunos incluso ponen a la altura de los grandes clásicos de la literatura germánica. Fue el último sobreviviente de una generación de intelectuales heredada de la obra de Oswald Spengler, Martin Heidegger, Carl Schmitt y Gottfried Benn. Apasionado polemista, nunca estuvo ajeno de la controversia política e ideológica de su patria; iconoclasta paradójico, enemigo del eufemismo, "anarquista reaccionario" en sus propias palabras, abominador de las dictaduras (fue expulsado del ejército alemán en 1944 después del fracaso del movimiento antihitlerista) y las democracias (dictaduras de la mayoría, como las llamó Karl Kraus, líder espiritual del círculo de Viena). En 1981, Jünger recibió el premio Goethe en Frankfurt, máximo galardón literario de la lengua germana. Sus obras, varias de ellas de carácter biográfico, giran sobre el eje de protagonistas en cuyas almas el autor intenta plasmar una cierta soledad y desencantamiento frente al mundo contemporáneo; al tema central, intercala disquisiciones acerca del origen y destino del hombre, filosofía de la historia, naturaleza del Estado y la sociedad. Por sobre esto, sus obras constituyen un llamado de denuncia y advertencia ante el avance incontenible y abrasador del nihilismo como movimiento mundial, a la vez que se convierten en guías para las almas rebeldes ante este proceso avasallador.

II

Pero, ¿qué es el nihilismo? Jünger, en un intercambio epistolar con Martin Heidegger, expuso sus conceptos sobre el nihilismo en el ensayo Sobre la línea (1949). Basándose en La voluntad de poder de F. Nietzsche, lo define, en primer término, como una fase de un proceso espiritual que lo abarca y al que nada ni nadie pueden sustraerse. En sí mismo, es un proceso determinado por "la devaluación de los valores supremos", en que el contacto con lo Absoluto es imposible: "Dios ha muerto". Nietzsche se caracteriza como el primer nihilista de Europa, pero que ya ha vivido en sí el nihilismo mismo hasta el fin. De esto Jünger recoge un Optimismo dentro del Pesimismo característico de este proceso, en el sentido de que Nietzsche anuncia un contramovimiento futuro que reemplazará a este nihilismo, aun cuando lo presuponga como necesario. También recoge síntomas del nihilismo en el Raskolnikov de Dostoievski, que "actúa en el aislamiento de la persona singular", dándole el nombre de ayuntamiento, proceso que puede resultar horrible en su epílogo, o ser la salvación del individuo luego de su purificación "en los infiernos", regresando a su comunidad con el reconocimiento de la culpa. Entre las dos concepciones, Jünger rescata un parentesco, el hecho de que progresan en tres fases análogas: de la duda al pesimismo, de ahí a acciones en el espacio sin dioses ni valores y después a nuevos cometidos. Esto permite concluir que tanto Nietzsche como Dostoievski ven una y la misma realidad, sí bien desde puntos muy alejados.

Jünger se encarga de limpiar y desmitificar el concepto de nihilismo, debido a todas las definiciones confusas y contradictorias que intelectuales posteriores a Nietzsche desarrollaron en sus trabajos, problema para él lógico debido a la "imposibilidad del espíritu de representar la Nada". Como problema principal, distingue el nihilismo de los ámbitos de lo caótico, lo enfermo y lo malo, fenómenos que aparecen con él y le han dado a la palabra un sentido polémico. El nihilismo depende del orden para seguir activo a gran escala, por lo que el desorden, el caos serían, como máximo, su peor consecuencia. A la vez, un nihilista activo goza de buena salud para responder a la altura del esfuerzo y voluntad que se exige a sí mismo y los demás. Para Nietzsche, el nihilismo es un estado normal y sólo patológico, por lo que comprende lo sano y lo enfermo a su particular modo. Y en cuanto a lo malo, el nihilista no es un criminal en el sentido tradicional, pues para ello tendría que existir todavía un orden válido.

El nihilismo, señala Jünger, se caracteriza por ser un estado de desvanecimiento, en que prima la reducción y el ser reducido, acciones propias del movimiento hacia el punto cero. Si se observa el lado más negativo de la reducción, aparece como característica tal vez más importante la remisión del número a la cifra o también del símbolo a las relaciones descarnadas; la confusión del valor por el precio y la vulgarización del tabú. También es característico del pensamiento nihilista la inclinación a referir el mundo con sus tendencias plurales y complicadas a un denominador; la volatización de las formas de veneración y el asombro como fuente de ciencia y un "vértigo ante el abismo cósmico" con el cual expresa ese miedo especial a la Nada. También es inherente al nihilismo la creciente inclinación a la especialización, que llega a niveles tan altos que "la persona singular sólo difunde una idea ramificada, sólo mueve un dedo en la cadena de montaje", y el aumento de circulación de un "número inabarcable de religiones sustitutorias", tanto en las ciencias, en las concepciones religiosas y hasta en los partidos políticos, producto de los ataques en las regiones ya vaciadas.

Según lo expresado en Sobre la línea, es la disputa con Leviatán -ente que representa las fuerzas y procesos de la época, en cuanto se impone como tirano exterior e interior-, es la más amplia y general en este mundo. ¿Cuáles son los dos miedos del hombre cuando el nihilismo culmina? "El espanto al vacío interior, obligando a manifestarse hacia fuera a cualquier precio, por medio del despliegue de poder, dominio espacial y velocidad acelerada. El otro opera de afuera hacia adentro como ataque del poderoso mundo a la vez demoníaco y automatizado. En ese juego doble consiste la invencibilidad del Leviatán en nuestra época. Es ilusorio; en eso reside su poder". La obra de Jünger trastoca el tema de la resistencia; se plantea la pregunta sobre cómo debe comportarse y sostenerse el hombre ante la aniquilación frente a la resaca nihilista.
"En la medida en que el nihilismo se hace normal, se hacen más temibles los símbolos del vacío que los del poder. Pero la libertad no habita en el vacío, mora en lo no ordenado y no separado, en aquellos ámbitos que se cuentan entre los organizables, pero no para la organización". Jünger llama a estos lugares "la tierra salvaje", lugar en el cual el hombre no sólo debe esperar luchar, sino también vencer. Son estos lugares a los cuales el Leviatán no tiene acceso, y lo ronda con rabia. Es de modo inmediato la muerte. Aquí dormita el máximo peligro: los hombres pierden el miedo. El segundo poder fundamental es Eros; "allí donde dos personas se aman, se sustraen al ámbito del Leviatán, crean un espacio no controlado por él". El Eros también vive en la amistad, que frente a las acciones tiránicas experimenta sus últimas pruebas. Los pensamientos y sentimientos quedan encerrados en lo más íntimo al armarse el individuo una fortificación que no permite escapar nada al exterior; "En tales situaciones la charla con el amigo de confianza no sólo puede consolar infinitamente sino también devolver y confirmar el mundo en sus libres y justas medidas". La necesidad entre sí de hombres testigos de que la libertad todavía no ha desaparecido harán crecer las fuerzas de la resistencia. Es por lo que el tirano busca disolver todo lo humano, tanto en lo general y público, para mantener lo extraordinario e incalculable, lejos.

Este proceso de devaluación de los valores supremos ha alcanzado, de algún modo, caracteres de "perfección" en la actualidad. Esta "perfección" del nihilismo hay que entenderla en la acepción de Heidegger, compartida por Jünger, como aquella situación en que este movimiento "ha apresado todas las consistencias y se encuentra presente en todas partes, cuando nada puede suponerse como excepción en la medida en que se ha convertido en el estado normal." El agente inmediato de este fenómeno radica en el desencuentro del hombre consigo mismo y con su potencia divina. La obra de Jünger, en este sentido, da cuenta del afán por radicar el fundamento del hombre.

III

Uno de los síntomas de nuestra época es el temor. Aquel temor que hace afirmar al autor que toda mirada no es más que un acto de agresión y que hace radicar la igualdad en la posibilidad que tienen los hombres de matarse los unos a los otros. A lo anterior, hay que agregar la inclinación a la violencia que desde el nacimiento todos traemos, según lo señalado en su novela "Eumeswil" (1977). . Por eso el mundo se torna en imperfecto y hostil. Su historia no es sino la de un cadáver acechado una y otra vez por enjambres de buitres. Esta visión lúgubre de la realidad, en la que se encuentra una reminiscencia schopenhaueriana, fue sin duda alimentada por la experiencia personal del autor, testigo del horror de dos guerras implacables que no hicieron más que coronar e instaurar en el mundo el culto a la destrucción, al fanatismo y la masificación del hombre. El avance de la técnica, a pesar de los beneficios que conlleva, a juicio de Jünger tiene la contrapartida de limitar la facultad de decisión de los hombres en la medida en que a favor de los alivios técnicos van renunciando a su capacidad de autodeterminación conduciendo, luego, a un automatismo generalizado que puede llevar a la aniquilación. La pregunta que surge entonces es cómo el hombre puede superarlo, a través de que medios puede salvarse. La respuesta de Jünger, en boca de uno de sus personajes principales, el anarca Venator: la salvación está en uno mismo. El anarca, que nada tiene que ver con el anarquista, expulsa de sí a la sociedad, ya que tanto de ésta como del Estado poco cabe esperar en la búsqueda de sí mismo. El no se apoya en nadie fuera de su propio ser; su propósito es convertirse en soberano de su propia persona, porque la libertad es, en el fondo, propiedad sobre uno mismo.

Aparecen en este momento dos afirmaciones que pueden aparecer como contradictorias: el hombre inclinado a la violencia desde su nacimiento, y el hombre que debe penetrar en un conocimiento interior con el fin de descubrir su forma divina. Jünger afirma que la riqueza del hombre es infinitamente mayor de lo que se piensa. ¿Cómo conciliar esto con el carácter perverso que le atribuye al mismo? Al responder esto, el escritor apela a una instancia superior a la que denomina Uno, Divinidad, lo Eterno, según lo que se colige sobre todo en su obra posterior a 1950. La relación entre el hombre y lo Absoluto, expuesta por el maestro alemán, se entiende del siguiente modo: el ser, forma o alma de cada uno de nosotros ha estado, desde siempre, es decir, antes de nacer, en el seno de la Divinidad, y, después de la muerte, volverá a estar con ella. Antes de nacer, es tal el grado de indeterminación de esa unidad en lo Uno que el hombre no puede tener conciencia de la misma. Sólo cuando el nacimiento se produce, el hombre se hace consciente de su anterior unidad y busca desesperadamente volver a ella, al sentirse un ser solitario. Es allí cuando debe dirigirse hacia sí mismo, penetrar en su alma que es la eterna manifestación de lo divino. En el conócete a ti mismo, el hombre puede acceder a la forma que le es propia, proceso que para Jünger es un "ver" que se dirige hacia el ser, la idea absoluta. Señala en El trabajador que la forma es fuente de dotación de sentido, y la representación de su presencia le otorga al hombre una nueva y especial voluntad de poder, cuyo propósito radica en el apoderamiento de sí mismo, en lo absoluto de su esencia, ya que el objeto del poder estriba en el ser-dueño... En consecuencia, en ese descubrimiento de ser atemporal e inalterable que le confiere sentido, el hombre puede hacerse propietario de éste y convertirse en un sujeto libre. En caso contrario, quien no posea un conocimiento de sí mismo es incapaz de tener dominio sobre su ser no pudiendo, por tanto, sembrar orden y paz a su alrededor. En conclusión, esta inclinación a la violencia que surge con el nacimiento del hombre, en otras palabras, con su separación de lo Uno en la identidad primordial y primigenia dando lugar a la negación de la Divinidad, puede ser dominada y contrarrestada en la medida que el hombre se convierta en dueño de sí mismo, para lo cual es fundamental el conocimiento de la forma que nos otorga sentido.

La sustancia histórica, señala Jünger, radica en el encuentro del hombre consigo mismo. Ese encuentro con el ser supratemporal que le dota de sentido lo simboliza con el bosque. En su obra El tratado del rebelde afirma: "La mayor vigencia del bosque es el encuentro con el propio yo, con la médula indestructible, con la esencia de que se nutre el fenómeno temporal e individual". Es, entonces, el lugar donde se produce la afirmación de la Divinidad, al adquirir el sujeto la conciencia misma como partícipe de la identidad con lo Eterno.

El Verbo, entendido como "la materia del espíritu", es el más sublime de los instrumentos de poder, y reposa entre las palabras y les da vida. Su lugar es el bosque. "Toda toma de posesión de una tierra, en lo concreto y en lo abstracto, toda construcción y toda ruta, todos los encuentros y tratados tienen por punto de partida revelaciones, deliberaciones, confirmaciones juradas en el Verbo y en el lenguaje", enuncia en El tratado del rebelde. El lenguaje es, en definitiva, un medio de dominación de la realidad, puesto que a través de él aprehendemos sus formas últimas, en la medida en que es expresión de la idea absoluta. En una época tan abrumadoramente nihilista como la contemporánea, el propio autor describe como el lenguaje va siendo lentamente desplazado por las cifras.

En la obra de Jünger, el hombre que no acepta el "espíritu del tiempo" y se "retira hacia sí mismo" en busca de su libertad, es un rebelde. A partir de un ensayo de 1951, Jünger había propuesto una figura de rebelde a las leyes de la sociedad instalada, el Waldgänger que, según una antigua tradición islandesa, se escapa a los bosques en busca de sí mismo y su libertad. Posteriormente, el autor desarrolla la figura del rebelde en la novela Eumeswil, publicada en 1977, definiendo la postura del anarca, tipo que encarnaría el distanciamiento frente a los peores aspectos del nihilismo actual; o como el único camino digno a seguir para los hombres de verdad libres.

IV

Como en Heliópolis, en Eumeswil, Jünger nos presenta un mundo aún por llegar: se vive allí el estado consecutivo a los Grandes Incendios -una guerra mundial, evidentemente- y a la constitución y posterior disolución del Estado Mundial. Un mundo simplificado, en que aparecen formas semejantes a las del pasado: los principados de los Khanes, las ciudades-estados. El autor marca el carácter postrero del ambiente que da a su novela, comparándola a la época helenística que sigue a Alejandro Magno, una ciudad como Alejandría, ciudad sin raíces ni tradición. De modo análogo, en la sociedad de Eumeswil las distinciones de rangos, de razas o clases han desaparecido; quedan sólo individuos, distinguidos entre ellos por los grados de participación en el poder. Se posee aún la técnica, pero como algo más bien heredado de los siglos creadores en este dominio. La técnica permite, por ejemplo -siendo esto otro rasgo alejandrino-, un gran acopio de datos sobre el pasado, pero este pasado ya no se comprende.

Se enfrentan en Eumeswil dos poderes: el militar y el popular, demagógico, de los tribunos. Del elemento militar ha salido el Cóndor, el típico tirano que restablece el orden y, con él, las posibilidades de la vida normal, cotidiana, de los habitantes. Pero se trata de un puro poder personal, informe, que ya no puede restaurar la forma política desvanecida. Por lo demás tampoco en Eumeswil se tiene la ilusión de la gran política; no se trata siquiera de una potencia, viviendo como vive bajo la discreta protección del Khan Amarillo. En suma, son las condiciones de la civilización spengleriana, las de toda época final en el decurso de las culturas. "Masas sin historia", "Estados de fellahs", como señala Jünger.

El protagonista y narrador de la novela es Martín Venator, "Manuelo" en el servicio nocturno de la alcazaba del Cóndor. Es un historiador de oficio: aplica al pasado sus cualidades de observador, y de allí las reflexiones sobre el tiempo presente. Su modelo es, sin duda, Tácito: senador bajo los Césares, celoso del margen de libertad que aún puede conservar, escéptico frente a los hombres y frente al régimen imperial.

Venator también es camarero, barman en la alcazaba: como en las cortes de otra época, el servicio personal y doméstico al señor resulta ennoblecido. El camarero suele ser asimismo un observador, y en este terreno se encuentra con el historiador.

El historiador se retira voluntariamente al pasado, donde se encuentra en realidad "en su casa", y en este modo se aparta de la política. La derrota, el exilio, han sido a veces la condición de desarrollo de una vocación historiográfica -Tucídides en la Antigüedad, por ejemplo-, pero en otras ocasiones el historiador ha tomado parte activa de las luchas de su tiempo. En la novela, tanto el padre como el hermano del protagonista también son historiadores, pero, a diferencia de éste, están ideológicamente "comprometidos": son buenos republicanos, liberales doctrinarios, cautos enemigos del Cóndor más ajenos al mundo de los hechos que éste representa. Ellos deploran que "Manuelo" haya descendido a tan humilde servicio al tirano. Servicio fielmente prestado, pero en ningún caso incondicional. Entre los enemigos del Cóndor están los anarquistas: conspiran, ejecutan atentados... nada que la policía del tirano no logre controlar. De ellos se diferencia claramente Venator: no es un anarquista, es un anarca.

V

La mejor definición para la posición del anarca pasa por su relación y distinción de las otras figuras, las otras individualidades que se alzan, cada una a su modo, frente al Estado y la sociedad: el anarquista, el partisano, el criminal, el solipsista; o también, del monarca absoluto, como Tiberio o Nerón. Pues en el hombre y en la historia hay un fondo irrenunciable de anarquía, que puede aflorar o no a la superficie, y en mayor o menor grado, según los casos. En la historia, es el elemento dinámico que evita el estancamiento, que disuelve las formas petrificadas. En el hombre, es esa libertad interior fundamental. De tal modo que el guerrero, que se da su propia ley, es anárquico, mientras que el soldado no. En aparente paradoja, el anarquista no es anárquico, aunque algo tiene, sin duda. Es un ser social que necesita de los demás; por lo menos de sus compañeros. Es un idealista que, al fin y al cabo, resulta determinado por el poder. "Se dirige contra la persona del monarca, pero asegura la sucesión".

El anarca, por su parte, es la "contrapartida positiva" del anarquista. En propias palabras de Jünger: "El anarquista, contrariamente al terrorista, es un hombre que en lo esencial tiene intenciones. Como los revolucionarios rusos de la época zarista, quiere dinamitar a los monarcas. Pero la mayoría de las veces el golpe se vuelve contra él en vez de servirlo, de modo que acaba a menudo bajo el hacha del verdugo o se suicida. Ocurre incluso, lo cual es claramente más desagradable, que el terrorista que ha salido con bien siga viviendo en sus recuerdos...El anarca no tiene tales intenciones, está mucho más afirmado en sí mismo. El estado de anarca es de hecho el estado natural que cada hombre lleva en sí. Encarna más bien el punto de vista de Stirner, el autor de El único y su propiedad ; es decir, que él es lo único. Stirner dice: "Nada prevalece sobre mí". El anarca es, de hecho, el hombre natural". No es antagonista del monarca, sino más bien su polo opuesto. Tiene conciencia de su radical igualdad con el monarca; puede matarlo, y puede también dejarlo con vida. No busca dominar a muchos, sino sólo dominarse a sí mismo. A diferencia del solipsista, cuenta con la realidad exterior. No busca cambiar la ley, como el anarquista o el partisano; no se mueve, como éstos en el terreno de las opciones políticas o sociales. Tampoco busca trasgredir la ley, como el criminal; se limita a no reconocerla. El anarca, pues, no es hostil al poder, ni a la autoridad, ni a la ley; entiende las normas como leyes naturales.

No adhiere el anarca a las ideas, sino a los hechos; es en esencia pragmático. Está convencido de la inutilidad de todo esfuerzo ("tal vez esta actitud tenga algo que ver con la sobresaturación de una época tardía"). Neutral frente al Estado y a la sociedad, tiene en sí mismo su propio centro. Los regímenes políticos le son indiferentes; ha visto las banderas, ya izadas, ya arriadas. Jünger afirma, además, que aquellas banderas son sólo diferentes en lo externo, porque sirven a unos mismos principios, los mismos que harán que " toda actitud que se aparte del sistema, sea maldita desde el punto de vista racional y ético, y luego proscrita por el derecho y la coacción." No obstante, el anarca puede cumplir bien el papel que le ha tocado en suerte. Venator no piensa desertar del servicio del Cóndor, sino, por el contrario, seguir lealmente hasta el final. Pero porque él quiere; él decidirá cuando llegue el momento. En definitiva, el anarca hace su propio juego y, junto a la máxima de Delfos, "conócete a ti mismo", elige esta otra: "hazte feliz a ti mismo".

La figura del anarca resplandece verdaderamente, como la del hombre libre frente al Estado burocrático y a la sociedad conformista de la actualidad. Incluso aparece en algunas ocasiones en forma más bien mezquina, a la manera del egoísmo de Stirner: "quien, en medio de los cambios políticos, permanece fiel a sus juramentos, es un imbécil, un mozo de cuerda apto para desempeñar trabajos que no son asunto suyo". "(El anarca) sólo retrocede ante el juramento, el sacrificio, la entrega última". "Sólo cabe una norma de conducta" -dice Attila, médico del Cóndor, anarca a su modo- "la del camaleón..."

VI

La cuestión es si el anarca se constituye en una figura ejemplar para cierto tipo de hombres que no se reconozcan en las producciones sociales últimas. Pues si el anarca es la "actitud natural" -"el niño que hace lo que quiere"-, entonces nos hallamos ante simples situaciones de hecho que no tienen ningún valor normativo ni ejemplar. Desde siempre los hombres han querido huir del dolor y buscar lo agradable; por otro lado, apartarse de una sociedad decadente y que llega a ser asfixiante es una cosa sana. Venator invoca a Epicuro como modelo; debería referirse más bien a Aristipo de Cirene, discípulo de Sócrates y fundador de la escuela hedonista, quien proponía una vida radicalmente apolítica, "ni gobernante ni esclavo", con la libertad y el placer como únicos criterios. Jünger reconoce, y muy de buena gana, que el tipo de anarca se encuentra, socialmente hablando, en el pequeño burgués, piedra de tope de más de una corriente de pensamiento: es ese artesano, ese tendero independiente y arisco frente al Estado. La figura del anarca es más familiar al mundo anglosajón, especialmente al norteamericano, con su sentido ferozmente individualista y antiestatal: del cowboy solitario o del outlaw al "objetor de conciencia". Están en la mejor línea del anarca y el rebelde contra la masificación burocrática. Se sabe, por supuesto, en qué condiciones sociales han florecido estos modelos.

Pero las sociedades "posmodernas" actuales se distinguen por el más vulgar hedonismo; su tipo no es el del "superhombre", sino el del "último hombre" nietzscheano, el que cree haber descubierto la felicidad. El tipo del "idealista" y del "militante" pertenecen a etapas ya superadas; hoy, es el individuo de las sociedades "despolitizadas", soft, que toma lo que puede y rehusa todo esfuerzo. ¿Cuál es la diferencia de este tipo de hombre con el anarca? La respuesta radica en que el segundo está libre de todas las ataduras sentimentales, ideológicas y moralistas que aún caracterizan al primero. En verdad, la figura de Venator está históricamente condicionada: aparece en una de esas épocas postreras en la cuales nada se puede ya esperar. Lo que hay que esclarecer es si efectivamente nuestra propia época es una de ellas. Pero lo dicho sobre el anarca tiene un alcance mucho más universal: en cualquier tiempo y lugar se puede ser anarca, pues "en todas partes reina el símbolo de la libertad".

La senda del anarca termina en la retirada. Venator ha estado organizando una "emboscadura" temporal -según lo que el mismo Jünger recomendaba en Der Waldgang (1951)-, para el caso de caída del Cóndor. Al final, seguirá a éste, con toda su comitiva, en una expedición de caza a las selvas misteriosas más allá de Eumeswil: una emboscadura radical, o la muerte, no se sabe el desenlace. Del mismo modo, en Heliópolis, el comandante Lucius de Geer y sus compañeros se retiran en un cohete, con destino desconocido. Pero eso sí, después de haber luchado sus batallas, al igual que los defensores de la Marina en Sobre los Acantilados de Mármol no buscan refugio sino después de dura lucha con las fuerzas del Gran Guardabosques. Pero ¿de qué se trata esta "emboscadura"?

El anarca hace lo que Julius Evola, el gran pensador italiano, recomienda en su libro Cabalgar el tigre: "La regla a seguir puede consistir, entonces, en dejar libre curso a las fuerzas y procesos de la época, permaneciendo firmes y dispuestos a intervenir cuando el tigre, que no puede abalanzarse sobre quien lo cabalga, esté fatigado de correr". Lo que Evola llama "tigre", Jünger lo denomina "Leviatán" o "Titanic".
El anarca se retira hacia sí mismo porque debe esperar su hora; el mundo debe ser cumplido totalmente, la desacralización, el nihilismo y la entropía deberán ser totales: lo que Vintila Horia llama "universalización del desastre". Jünger enfatiza que emboscarse no significa abandonar el "Titanic", puesto que eso sería tirarse al mar y perecer en medio de la navegación. Además: "Bosque hay en todas partes. Hay bosque en los despoblados y hay bosque en las ciudades; en éstas, el emboscado vive escondido o lleva puesta la máscara de una profesión. Hay bosque en el desierto y hay bosque en las espesuras. Hay bosque en la patria lo mismo que lo hay en cualquier otro sitio donde resulte posible oponer resistencia... Bosque es el nombre que hemos dado al lugar de la libertad... La nave significa el ser temporal; el bosque, el ser sobretemporal...". En la figura del rebelde, por tanto, es posible distinguir dos denominaciones: emboscado y anarca. El primero presentaría las coordenadas espirituales, mientras el segundo da luces sobre su plasmación en el "aquí y ahora". Jünger lo define más claramente: "Llamamos emboscado a quien, privado de patria por el gran proceso y transformado por él en un individuo aislado, está decidido a ofrecer resistencia y se propone llevar adelante la lucha, una lucha que acaso carezca de perspectiva. Un emboscado es, pues, quien posee una relación originaria con la libertad... El emboscado no permite que ningún poder, por muy superior que sea, le prescriba la ley, ni por la propaganda, ni por la violencia".

VII

El nihilismo y la rebeldía... La figura del anarca es la de quien ha sobrevivido al "fin de la historia" ("carencia de proyecto: malestar o sueño"). El último hombre no puede expulsar al anarca que convive junto a él. Su poder radica en su impecable soledad y en el desinterés de su acción. Su sí y su no son fatales para el mundo que habita. El anarca se presenta como la victoria y superación del nihilismo. Las utopías le son ajenas, pero no el profundo significado que se esconde tras ellas. "El anarca no se guía por las ideas, sino por los hechos. Lucha en solitario, como hombre libre, ajeno a la idea de sacrificarse en pro de un régimen que será sustituído por otro igualmente incapaz, o en pro de un poder que domine a otro poder".

El anarca ha perdido el miedo al Leviatán, en el encuentro con la médula indestructible que le dota de sentido para luego proyectarse y reconocerse en el otro, en la amada, en el hermano, en el que sufre y en el desamparado, puesto que Eros es su aliado y sabe que no lo abandonará...

La actitud del anarca puede ser interpretada desde dos perspectivas, una activa y otra pasiva. Esta última verá en la emboscadura, y en el anarca que la realiza, la posibilidad de huir del presente y aislarse en aquella patria que todos llevamos en nuestro interior; al decir de Evola, la que nadie puede ocupar ni destruir. Pero no debe confundirse la actitud del anarca como una simple huida: "Ya hemos apuntado que ese propósito no puede limitarse a la conquista de puros reinos interiores". Mas bien se trata de otro tipo de acción, de un combate distinto, "donde la actuación pasaría entonces a manos de minorías selectas que prefieren el peligro a la esclavitud". Minorías que entiendan que emboscarse es dar lucha por lo esencial, sin tiempo y acaso sin perspectivas. Minorías que, como el propio Jünger lo expresa, sean capaces de llevar adelante la plasmación de una "nueva orden", que no temerá y, por el contrario, gustará de pertenecer al bando de los proscritos, pues se funda en la camaradería y la experiencia; orden que pueda llevar a buen término la travesía más allá del "meridiano cero", y se prepare a dar una lucha en el "aquí y ahora"...

"En el seno del gris rebaño se esconden lobos, es decir, personas que continúan sabiendo lo que es la libertad. Y esos lobos no son sólo fuertes en sí mismos: también existe el peligro de que contagien sus atributos a la masa, cuando amanezca un mal día, de modo que el rebaño se convierta en horda. Tal es la pesadilla que no deja dormir tranquilos a los que tienen el poder".

samedi, 03 juillet 2010

"Deux individus contre l'histoire. Pierre Drieu La Rochelle, Ernst Jünger" par Julien Hervier

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« Deux individus contre l'histoire. Pierre Drieu la Rochelle, Ernst Jünger » par Julien Hervier

 

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L’auteur et le livre

Ce livre est la réédition revue, corrigée et augmentée d’une postface, d’un texte publié pour la première fois en 1978 et qui était lui-même la version allégée d’une thèse d’État soutenue en Sorbonne. Professeur honoraire de l’université de Poitiers, Julien Hervier est le principal traducteur de Jünger et a dirigé l’édition des Journaux de guerre dans la Pléiade, il a également traduit des ouvrages de Nietzsche, Heidegger et Hermann Hesse, et a édité de nombreux textes de Drieu, notamment son Journal 1939-1945.

Comme le souligne lui-même l’auteur dans sa postface, le contenu de son livre serait bien différent s’il devait l’écrire aujourd’hui, notamment en ce qui concerne Jünger dont l’œuvre a pris une autre ampleur, en particulier avec les cinq volumes du journal de vieillesse Soixante-dix s’efface, jusqu’à sa mort en 1998. Quant à Drieu, il faudrait « insister sur la dimension religieuse de [son] univers » plutôt que de « le réduire à son image de grand séducteur et d’essayiste politique ». Durant les quelque trente ans qui se sont écoulés entre l’édition princeps de cet ouvrage et la présente réédition, le contexte idéologico-politique a profondément changé et ce texte doit donc être lu sans jamais perdre de vue le moment où il fut écrit.

Deux écrivains individualistes et aristocratique : quatre grands thèmes

En 1978 donc, J. Hervier (JH) se propose d’étudier deux écrivains « d’esprit individualiste et aristocratique » qui ont accordé dans leur œuvre « une large place aux problèmes de la philosophie de l’histoire » qu’ils ont « transcrits en termes romanesques ». Son livre se décline selon quatre grands thèmes (la Guerre, la Politique, l’Individu et l’Histoire, la Religion), abordés sous différents aspects pour chacun des deux auteurs. 

  • La Guerre - Pour Jünger comme pour Drieu, la guerre est perçue comme une « loi naturelle », et la Première Guerre mondiale est « l’expérience fondamentale de leur jeunesse ». Rappelons seulement quelques titres. Pour le premier : Orages d’acier (1920), La guerre notre mère (1922), Le boqueteau 125 (1925), les journaux de guerre de 1939 à 1948… et cette sentence : « Le combat est toujours quelque chose de saint, un jugement divin entre deux idées ». Pour le second, les poèmes Interrogation (1917) et Fond de cantine (1920), et surtout le roman La comédie de Charleroi (1934). Pour Drieu, les hommes « ne sont nés que pour la guerre »
Jünger considère également la guerre comme « technique » et écrit à cet égard : « La machine représente l’intelligence d’un peuple coulée en acier », tandis que Drieu juge que « la guerre moderne est une révolte maléfique de la matière asservie par l’homme ».
Le livre de Jünger La guerre notre mère illustre parfaitement l’idéologie nationaliste qui régnait alors dans l’Allemagne meurtrie par la défaite, avec son exaltation du sacrifice suprême : mourir pour la patrie. Si, à cette époque, Drieu est sensible à cette idée de sacrifice patriotique, avec la Seconde Guerre mondiale il évoluera du nationalisme au pacifisme.

  • La politique - En matière de politique, les nationalistes que sont initialement Jünger et Drieu estimeront rapidement que le nationalisme est dépassé et qu’il doit évoluer, pour l’un vers l’État universel et pour l’autre vers une Europe unie. Tous deux cependant appellent à une révolution, « conservatrice » pour Jünger et « fasciste » pour Drieu. On connaît les engagements de ces deux intellectuels, mot que Drieu définit ainsi : « Un véritable intellectuel est toujours un partisan, mais toujours un partisan exilé : toujours un homme de foi, mais toujours un hérétique ». Pour l’auteur de Gilles, l’engagement est nécessaire, mais « difficile » et « ambigu ». Pour Jünger, l’engagement est paradoxal : « Ma façon de participer à l’histoire contemporaine, telle que je l’observe en moi, observe-t-il, est celle d’un homme qui se sait engagé malgré lui, moins dans une guerre mondiale que dans une guerre civile à l’échelle mondiale. Je suis par conséquent lié à des conflits tout autres que ceux des États nationaux en lutte ». Une chose est sûre, ces deux intellectuels sont des « spectateurs engagés », mais Jünger « préfère finalement refuser l’engagement – même si un remords latent lui suggère que, malgré tout, en s’établissant dans le supratemporel, il peut réagir sur son environnement politique » (JH), tandis que l’engagement de Drieu « est placé sous le signe du déchirement et de la mauvaise conscience ».

  • L’individu et l’histoire - L’individualisme est une caractéristique essentielle de la personnalité de Drieu (« Je ne peux concevoir la vie que sous une forme individuelle » avoue-t-il en 1921), comme de celle de Jünger pour qui c’est dans l’individu « que siège le véritable tribunal de ce monde ». Mais leur individualisme est à la fois semblable et différent. Le premier, « individualiste forcené » par tempérament et formation, « condamne historiquement l’individualisme comme une survivance du passé, tout en étant incapable d’y échapper dans ses réactions psychologiques personnelles » (JH), le second, individualiste exacerbé également, prononce la même condamnation historique, mais dépasse la contradiction en affirmant, par-delà le constat de la décadence de l’individualisme bourgeois, « la nécessité d’une affirmation individuelle qui fait de chacun le dernier témoin de la liberté » (id.). Devant l’Histoire, Jünger et Drieu ont des attitudes parfois proches et parfois opposées. Jünger la conçoit, à l’instar de Spengler, comme essentiellement cyclique : les civilisations naissent, se développent, déclinent et disparaissent. De fait, il s’oppose aux conceptions de l’Histoire héritées des Lumières comme à celles issues du marxisme. Il envisage cependant « une disparition probable de l’homme historique ». (JH).

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Drieu est fortement marqué par l’idée de décadence, son « pessimisme hyperbolique et métaphysique » dépasse le « déclinisme » de Spengler, mais, pour lui, il existe un « courant rapide » qui entraîne tout le monde « dans le même sens » et que « rien ne peut arrêter ». Il se rapproche donc, d’une certaine manière de la conception marxiste du « sens de l’histoire », mais va jusqu’à dire que l’Histoire, c’est ce « qu’on appelle aujourd’hui la Providence ou Dieu ».
Dans leurs « utopies romanesques », Jünger (Sur les falaises de marbre, Heliopolis) et Drieu (Beloukia, L’homme à cheval) procèdent de manière radicalement différente : le premier « part de l’histoire présente pour aboutir à l’univers intemporel de l’utopie », tandis que le second « part de l’histoire passée pour aboutir à l’histoire présente » (JH). Tous deux sont déçus par le présent, mais alors que Jünger « lui substitue un monde mythique », Drieu « l’invente dans le passé ».
Face au « problème de la technique », Jünger et Drieu estiment tous deux que celle-ci a détruit l’ancienne civilisation sans lui avoir jamais trouvé de substitut. La solution, selon eux, ne réside pas dans un simple retour en arrière, mais dans la création de quelque chose qu’on n’appellera plus « civilisation » et qui relèvera de « la philosophie, de l’exercice de la connaissance, du culte de la sagesse » (Drieu)

 

  • La religion - Après la Guerre, la Politique, l’Individu et l’Histoire, la dernière partie du livre est consacrée au rapport à la religion de Jünger et de Drieu, et c’est sans doute, pour le lecteur qui ne connaît pas l’ensemble de l’œuvre de ces deux auteurs, la plus surprenante. Un long chapitre traite de « la pensée religieuse de Drieu ». Celui-ci, vieillissant, délaissant les femmes, rejetant l’action politique, se tourne de plus en plus vers la religion. Il passe de « l’ordre guerrier » de sa jeunesse à « l’ordre sacerdotal », et écrit, aux abords de la cinquantaine, des « romans théologiques ». Il admire dans le catholicisme « un système de pensée complexe » et une religion qui « représente pour la civilisation d’Europe son arche d’alliance, le coffre de voyage à travers le temps où se serre tout le trésor de son expérience etde sa sagesse ». Toutefois, s’il vénère le christianisme sub specie æternitatis, il déteste ce qu’il est devenu, c'est-à-dire une religion « vidée de sa substance », muséifiée, et qui ne représente plus qu’« une secte alanguie », à l’image du déclin général de l’Occident. L’Église n’est plus qu’une institution bourgeoise liée au grand capitalisme. À ce « catholicisme dégénéré » (JH), Drieu oppose le christianisme « viril » du Moyen Âge, celui du « Christ des cathédrales, le grand dieu blanc et viril ». Ce dieu « n’a rien à céder en virilité et en santé aux dieux de l’Olympe et du Walhalla, tout en étant plus riche qu’eux en secrets subtils, qui lui viennent des dieux de l’Asie ». Pour Drieu, il n’y a pas de véritable antagonisme entre le christianisme et le paganisme, mais seulement une façon différente d’interpréter la Nature. À ses yeux, c’est le catholicisme orthodoxe qui a le mieux conservé l’héritage païen.. Mais, au-delà des différentes religions, païennes ou chrétiennes, Drieu croit profondément en une sorte de syncrétisme universel, celui d’« une religion secrète et profonde qui lie toutes les religions entre elles et qui n’en fait qu’une seule expression de l’Homme unique et partout le même ».
Pour Jünger comme pour Drieu, la dimension religieuse est fondamentale et « transcende toutes les autres » (JH). Mais, contrairement à Drieu, le mot même de « Dieu » est peu fréquent dans son œuvre, caractérisée pourtant par une vision spiritualiste du monde. De fait, il semble qu’il ait envisagé une « nouvelle théologie », sans lien véritable avec l’idée d’un Dieu personnel, relevant plus sûrement d’une « religion universelle », au sens où il parle d’« État universel ». L’ennemi commun des nouveaux théologiens comme des Églises traditionnelles demeure, en tout état de cause, le « nihilisme athée ». La sympathie générale qu’il éprouve pour toutes les religions relève davantage de sa philosophie de l’histoire que d’un véritable sentiment religieux, mais ne l’empêchera pas, tout au long de la Seconde Guerre mondiale, d’exprimer des préoccupations chrétiennes. Son journal de guerre comprend d’innombrables références à la Bible, dont il loue le « prodigieux pouvoir symbolique », tandis que Sur les falaises de marbre et Heliopolis mettent en scène deux importantes figures de prêtres. « Au temps de la plus forte douleur, écrit-il, le christianisme « peut seul donner vie au temple de l’invisible que tentent de reconstruire les sages et les poètes ». Pour lui, le christianisme est avant tout ce qui, dans notre civilisation, « incarne les valeurs religieuses permanentes de l’humanité » (JH). À ses yeux, le christianisme constitue un humanisme qui prône une haute conception de l’homme. Il n’en accepte pas moins le « Dieu est mort » nietzschéen qui, souligne-t-il, est « la donnée fondamentale de la catastrophe universelle, mais aussi la condition préalable au prodigieux déploiement de puissance de l’homme qui commence ». La mort de Dieu n’est pour lui que la mort des dieux personnels, elle n’est donc pas un obstacle à la dimension religieuse de l’homme. Au mot de Nietzsche, il préfère celui de Léon Bloy, « Dieu se retire », ce qui annonce l’avènement du Troisième Règne, celui de l’Esprit qui succèdera à ceux du Père et du Fils.
En matière de religion, Drieu et Jünger sont « étrangement proches et profondément différents » (JH). Tous deux défendent les religions contre le rationalisme tout-puissant, sont convaincus de l’évidence de la mort du Dieu personnel et donc de la nécessité de « reconstruire à partir d’elle une nouvelle forme d’appréhension du divin » (JH).

Un mélange détonnant

Ce qui ressort de cette étude comparative de Jünger et Drieu, « c’est le mélange détonnant qui se produit en eux entre un esprit réactionnaire incontestable et une volonté révolutionnaire ». Toutefois si Jünger est plutôt un national-bolchevique et Drieu un révolutionnaire fasciste, face au « bourgeoisisme » tous deux sont des révolutionnaires.

Julie Hervier a intitulé son travail : « Deux individus contre l’histoire ». Le mot « individu » prend ici tout son sens lorsqu’on comprend, après avoir refermé le livre, que Jünger et Drieu sont fascinés par la singularité de l’individu. Jünger incarne un individualisme métaphysique qui est le contraire de l’individualisme bourgeois que Drieu, dans sa mauvaise conscience, croit représenter. Tous deux aspirent à l’avènement d’une nouvelle aristocratie, mais pour Drieu il s’agit d’une aspiration essentiellement politique, alors que pour Jünger le but c’est la constitution d’une « petite élite spirituelle ». Dans sa postface, l’auteur de cette magistrale et admirable étude justifie a posteriori son titre de 1978 en rappelant et en se réclamant de la formule de Kafka : « Il n’y a de décisif que l’individu qui se bat à contre-courant ».

Didier Marc
11/06/2010

Julien Hervier, Deux individus contre l’Histoire. Pierre Drieu la Rochelle, Ernst Jünger. Eurédit, 2010, 550 p.

Correspondance Polémia – 22/6/2010

vendredi, 07 mai 2010

Julius Evola on Race

 

Ex: http://www.theoccidentalobserver.net/authors/Sunic-Evola.html#TS


 

Julius Evola on Race

Tom Sunic

May 1, 2010 

Growing interest in English speaking countries for the Italian philosopher Julius Evola may be a sign of the revival of the awesome cultural legacy of the Western civilization (see here and here). This legacy is awkwardly termed the “traditional –revolutionary – elitist – anti-egalitarian – postmodern thought.” But why not simply call it classical thought?  

The advantage of Evola, in contrast to many modern scholars of the same calibre, may be his staggering erudition that goes well beyond the narrow study of race. Evola was just as much at ease writing thick volumes about religion, language and sexuality as writing about legal issues related to international politics, or depicting decadence of the liberal system. His shortcomings are, viewed from the American academic perspective, that his prose is often not focused enough and his narrative often embraces too many topics at once. Evola was not a self-proclaimed “expert” on race — yet his erudition made him compose several impressive books on race from angles that are sorely missing among modern sociobiologists and race experts. Therefore, Evola’s works on race must be always put in a lager perspective. 

In this short survey of Evola’s position on race I am using the hard cover of the French translation of Indirizzi per una educazione razziale (1941) (Eléments pour une éduction raciale, 1984) and the more expanded Sintesi di dottrina della razza (1941), (“Synthesis of the racial doctrine”), translated into German by the author himself and by Annemarie Rasch and published in Germany in 1943. To my knowledge these two books are not available in English translation. His and Rasch’s excellent German translation of Sintesi had received (in my view an awkward and unnecessary) ‘political’ title; Grundrisse der faschistischen Rassenlehre (“Outlines of the fascist racial doctrine”) and is available on line.

Race of the Body vs. Race of the Spirit   

Evola writes that race represents a crucial element in the life of all humans. However, while acknowledging the clear-cut physical and biological markers of each race, he stresses over and over again the paramount importance of the spiritual and internal aspects of race — two points that are decisive for genuine racial awareness of the White man. Without full comprehension of these constituent racial parts — i.e., the “race of the soul” and the “race of the spirit” — no racial awareness is possible. Evola is adamantly opposed to conceptualizing race from a purely biological, mechanistic and Darwinian perspective. He sees that approach as dangerously reductionist, leading to unnecessary political and intellectual infighting.  

Diverse causes have contributed until now to the fact that racism has become the object of propaganda entrusted to incompetent people, to individuals who are waking up any day now as racists and anti-Semites and whose simple sloganeering has replaced serious principles and information. (Eléments pour une éduction raciale, p. 15) 

Evola freely uses the term ‘racism’ (razzismo) and ‘racist’ (razzista).  This was quite understandable in his epoch given that these words in Europe in the early thirties of the 20th century had a very neutral meaning with no dreaded symbols of the absolute evil ascribed to them today. The same can be said of the word ‘fascism’ and even ‘totalitarianism’ —  words which Evola uses in a normative manner when depicting an organic and holistic society designed for the future of the Western civilization. For Evola, the sense of racial awareness is more a spiritual endeavor and less a form of biological typology.      

And in this respect, we need to repeat it; we are dealing here with a formation of a mentality, a sensibility, and not with intellectual schemes or classifications for natural science manuals. (Eléments p. 16) 

For Evola, being White is not just a matter of good looks and high IQ, or for that matter something that needs to be sported in public. Racial awareness implies a sense of mysticism combined with the knowledge of one’s family lineage as well as a spiritual effort to delve into the White man’s primordial and mythical times. This is a task, which in the age of liberal chaos, must be entrusted only to élites completely detached from any material or pecuniary temptation.

Thus, racism invigorates and renders tangible the concept of tradition; it  makes the individual get used to observing in our ancestors not just a series of the more or less illustrious “dead,” but rather the expression of something still alive in ourselves and to which we are tied in our interior.  We are the carriers of a heritage that has been transmitted to us and that we need to transmit  – and in this spirit it is something going beyond time, something indicating,  what we called elsewhere, ‘the eternal race.’ (Eléments, p.31) 

In other words race is at a same time a heritage and a collective substrate. Irrespective of the fact that it expresses itself among all people, it is only among few that it attains its perfect realization and it is precisely there that the action and the significance of the individual and the personality can assert themselves. (Eléments, p.34) 

Evola offers the same views in his more expanded Sintesi (Grundrisse), albeit by using a somewhat different wording. Racial awareness for Evola requires moral courage and impeccable character and not just physical prowess. It is questionable to what extent many White racists today, in a self-proclaimed “movement” of theirs, with their silly paraphernalia on public display, are capable of such a mental exercise.       

Race means superiority, wholeness, decisiveness in life. There are common people and there are people “of race”. Regardless of which social status they belong to, these people form an aristocracy(Grundrisse, p.17).

In this particular regard, the racial doctrine rejects the doctrine of the environment, known to be an accessory to liberalism, to the idea of humanity and to Marxism. These false doctrines have picked up on the theory of the environment in order to defend the dogma of fundamental equality of all people. (Grundrisse, p. 17) 

And further Evola writes: 

Our position, when we claim that race exists as much in the body as in the spirit, goes beyond these two points of view. Race is a profound force manifesting itself in the realm of the body (race of the body) as in the realm of the spirit (race of the interior, race of the sprit).  In its full meaning the purity of race occurs when these two manifestations coincide; in other words, when the race of the body matches the race of the spirit and when it is capable of serving the most adequate organ of expression. (p.48) 

Racial-Spiritual Involution and the present Dark Ages  

Evola is aware of the dangerous dichotomy between the race of the spirit and the race of the body that may occur within the same race — or, as we call it, within the same ingroup. This tragic phenomenon occurs as a result of selecting the wrong mates, miscegenation, and genetic flaws going back into the White man’s primordial times. Modern social decadence also fosters racial chaos. Evola argues that very often the “race of the body” may be perfectly pure, with the “race of the spirit” being already tainted or destroyed. This results in a cognitive clash between a distorted perception of objective reality vs. subjective reality, and which sooner or later leads to strife or civil war. 

Evola harbors no illusions about master race; he advocates racial hygiene, always emphasizing the spiritual aspect of the race first. On a practical level, regarding modern White nationalists, Evola’s words are important insofar as they represent a harsh indictment of the endless bickering, petty sectarianism and petty jealousy seen so often among Whites. A White nationalist may be endowed with a perfect race of the body, but his racial spirit may be dangerously mongrelized.  

Studying racial psychology is a crucial task for all White racialists — an endeavor in which Evola was greatly influenced by the German racial scholar and his contemporary Franz Ludwig Clauss.

Furthermore, a special circumstance must be singled out, confirming the already stated fact that races that have best biologically preserved the Nordic type are inwardly sometimes in a higher degree of regression than other races of the same family. Some Nordic nations — especially the Anglo-Saxons — are those in which the tradition-conditioned normal relationship between the sexes has been turned upside down. The so-called emancipation of woman — which in reality only means the mutilation and degradation of woman — has actually started out among these nations and has been most widespread among them, whereas this relationship still retains something of a tradition-based view among other nations, regardless of it its bourgeois or its conventional echo.(Grundrisse p. 84).

Evola is well aware of the complexity of understanding race as well as our still meager knowledge of the topic. He is well aware that race cannot be just the subject of biologists, but also of paleontologists, psycho-anthropologists and mystics, such as the French mystic René Guenon, whom he knew well and whom he often quotes.  

Following in Evola’s footsteps we may raise a haunting question. Why individuals of the same White race, i.e. of the same White in-group frequently do not understand each other? Why is it that the most murderous wars have occurred within the same race, i.e. within the same White ingroup, despite the fact that the European ingroup is more or less biologically bonded together by mutual blood ties?  One must always keep in mind that the bloodiest wars in the 20th century occurred not between two racially opposed out-groups, but often within the same White ingroup. The level of violence between Whites and Whites during the American civil war, the savagery of the intra-White civil war in Spain from 1936 to 1939,  the degree of mutual hatred amidst White Europeans during WWII, and not least the recent intra-White barbarity of the Yugoslav conflict, are often incomprehensible for a member of the non-European outgroup. This remains an issue that needs to be urgently addressed by all sociobiologists. It must be pondered by all White nationalist activists all over the world.

There are actually too many cases of people who are somatically of the same race, of the same tribe, indeed who are fathers and sons of the same blood in the strict sense of the word and, yet who cannot “understand” each other. A demarcation line separates their souls; their way of feeling and judging is different and their common race of the body cannot do much about it, nor their common blood.  The impossibility of mutual understanding lies therefore on the level of supra-biology (“überbiologische Ebene”). Mutual understanding and hence real togetherness, as well as deeper unity, are only possible where the common "race of the soul" and the "spirit" coexist. (Grundrisse, 89) 

In order to understand his political and moral predicament, the White man must therefore delve into myths of his prehistory and look for his faults. For Evola, we are all victims of rationalism, Enlightenment and positivistic sciences that keep us imprisoned in a straitjacket of “either-or,” always in search for causal and rational explanations. Only by grasping the supraracial (superraza) meaning of ancient European myths and by using them as role models, can we come to terms with the contemporary racial chaos of the modern system.  

It is absolutely crucial to grasp the living significance of such a change of perspectives inherent to racist conceptions; the superior does not derive from the inferior. In the mystery of our blood, in the depth of our most abysmal of our being, resides the ineffaceable heredity of our primordial times. This is not heredity of brutality of bestial and savage instincts gone astray, as argued by psychoanalysis, and which, as one may logically conclude, derive from “evolutionism” or Darwinism. This heredity of origins, this heredity which comes from the deepest depth of times is theheredity of the light. (Eléments  72–73) 

Briefly, Evola rejects the widespread idea that we have evolved from exotic African monkeys, as the standard theory of evolution goes, and which is still widely accepted by modern scientists. He believes that we have now become the tainted progeny of the mythical Hyperborean race, which has significantly racially deteriorated over the eons and which has been adrift both in time and space. Amidst the ruins of the modern world, gripped by perversion and decadence, Evola suggest for new political elites the two crucial criteria, “the character and the form of the spirit, much more than intelligence.” As a racial mystic, Evola warns:

Because the concept of the world can be much more precise with a man without instruction than with a writer; it can be more solid with a soldier, or a peasant loyal to his land, than with a bourgeois intellectual, professor, or a journalist. (quoted in Alain de Benoist’s, Vude droite, 1977, p. 435)

We could only add that the best cultural weapons for our White “super-race” are our common  Indo-Aryan myths, our sagas, our will to power — and our inexorable sense of the tragic. 

Tom Sunic (http://www.tomsunic.info; http://doctorsunic.netfirms.com) is author, translator, former US professor in political science and a member of the Board of Directors of the American Third Position. His new book, Postmortem Report: Cultural Examinations from Postmodernity, prefaced by Kevin MacDonald, has just been released. Email him 

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mercredi, 28 avril 2010

Carl Schmitt: Auf den Punkt gedacht

Carl Schmitt: Auf den Punkt gedacht

Christoph Rothämel  

http://www.blauenarzisse.de 

 

Carl_Schmitt.jpgMan möchte meinen, Carl Schmitt ist als Autor heute weniger wegen seiner Liaison mit dem Nationalsozialismus als wegen der Klarheit seiner Schriften unbeliebt. Seine unermüdliche juristische und philosophische Grundlagenarbeit, mit einem kühlen Kopf den Wörtern ihren Sinn zurückzugeben, hat sich in ein reichhaltiges Reservoir deutscher Denkkraft verwandelt. Dies erhellt dem Nachdenkenden die Struktur der modernen politischen Ideologien, sofern sie mit Begriffen wie Demokratie, Parlamentarismus, Diktatur, Souveränität, Menschheit hantieren. Der Begriff des Politischen und Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus sind nun bei Duncker & Humblot in neuer Auflage erschienen.

 

Die Lüftung des Schleiers über der Jakobinerlogik

Wenn Schmitt die Demokratie erklärt, wird deutlich, dass ein Parlament dafür keine notwendige Voraussetzung ist. Dass die Existenz eines Parlaments von fast allen Demokraten für den Staat dennoch als solche betrachtet wird, beruht auf dem gemeinsamen historischen Siegeszug von demokratischen Idealen und liberalen Ideen und der damit verbundenen denkerischen Fehlleistung einer automatischen Verknüpfung von Demokratie und Liberalismus. Demokratie selbst hat aber zunächst keinen politischen Inhalt, sondern stellt lediglich eine Organisationsform dar.

Ihr Kerninhalt bleibt das Dogma, dass alle politischen Entscheidungen nur für die Entscheidenden gelten sollen, die Identität von Herrscher und Beherrschten. Die überstimmte Minderheit muss ignoriert werden, was aber nicht schwer fällt, da ja nach Rousseau der Wille der überstimmten Minderheit in Wahrheit mit dem der Mehrheit übereinstimmt. Auch John Locke ist der festen Überzeugung, dass in der Demokratie der Bürger auch dem Gesetz zustimmt, das nicht seinem Willen entspricht. Letztlich ist das Gesetz identisch mit der volonté générale. Und weil - ganz rousseauistisch – der Generalwille der wahren Freiheit entspricht, war der Überstimmte nicht frei.

Da jederzeit die Möglichkeit besteht, dass das Volk mithilfe von Suggestionen betrogen wurde, kann der radikale Demokrat auch die Herrschaft der Minderheit über die Mehrheit rechtfertigen, wie sie exemplarisch in den Erziehungsdiktaturen der sozialistischen Revolutionen zutage trat. Der echte Demokrat bleibt, weil er an die Demokratie als eigenen Wert glaubt, weiter Demokrat, muss aber, weil die Regierten noch nicht „reif“ sind, die Demokratie praktisch zeitweilig suspendieren ohne sie theoretisch aufzugeben. Der Kernsatz Schmitts dazu lautet: „Es scheint also das Schicksal der Demokratie zu sein, sich im Problem der Willensbildung selbst aufzuheben.“

Da das Volk, das sich zur Willensbildung nicht mehr an der Dorflinde zum Thing treffen kann, auf Ausschüsse zur Repräsentation angewiesen ist, bleibt die Frage, ob nicht auch ein einziger Vertreter den wirklichen Willen des ganzen Volkes in den Händen halten kann? Bejaht man dies, muss man Adolf Hitler als Demokrat und Diktator anerkennen. Er beanspruchte jedenfalls den Willen des Volkes zu kennen und zur Ausführung zu bringen. Auch die DDR war demnach – ganz ihrem Namen nach - ein grundsätzlich demokratischer Staat. Lediglich für oder gegen die Regierung stimmen zu dürfen ist nicht etwa undemokratisch, es ist illiberal! Das Wahlsystem der DDR war genau genommen plebiszitär. Und ein Plebiszit ist nicht undemokratisch. Die Diktatur ist eben nicht der Gegenbegriff zur Demokratie.

Parlamentarismus

Der Parlamentarismus als Ausprägung einer liberalen Auffassung von Demokratie hat Diskussion und Öffentlichkeit zur Voraussetzung. Das Parlament soll Ausschuss des Volkes sein, in dem die überall verteilten Funken der Vernunft über die Diskussion zu einer politischen Willensbildung führen. Dass dieses Konzept durch die Massendemokratie mit all ihren Konsequenzen in Frage gestellt wird, stellt Schmitt meisterhaft heraus. Weder sind die parlamentarischen Diskussionen wirklich öffentlich, noch ermutigt das politische Personal den Wähler dazu, eine gehaltvolle Diskussion neben den Partikularinteressen der Protagonisten überhaupt noch für möglich zu halten. Es ist für den heutigen Leser leicht einsichtig, dass nach den unnormalen Wiederaufbauleistungen nach dem Zweiten Weltkrieg diese Erschlaffungstendenzen des Parlamentarismus, die Carl Schmitt in der Weimarer Republik beobachte, zurückkehren.

Die Darlegungen Schmitts gehen aber noch viel weiter. Grundlegend zu wissen ist, dass Demokratie immer eine hinreichende Homogenität voraussetzt. Die zunehmende Gleichsetzung von Staat und Volk mit dem Siegeszug der Demokraten ist mithin kein Zufall, sondern die notwendige Bedingung für die Herstellung handlungsfähiger politischer Einheiten auf demokratischer Basis. Man muss daher zwingend den Schluss ziehen, dass die Demokratie durch die Heterogenisierung des Staatsvolkes, wie wir sie gegenwärtig erleben, erheblichen Gefahren ausgesetzt ist.

Unüberbietbar ist seine Feststellung, dass die Krisis des modernen Staates darauf beruht, dass eine Massen- und Menschheitsdemokratie keine Staatsform, auch keinen demokratischen Staat zu realisieren vermag. In Bezug darauf sind die Selbsttäuschungen der Gegenwart wieder enorm angewachsen.

Politische Theologie und Souveränität

Der Glaube, dass alle Gewalt vom Volke kommt, erhält in der Demokratie eine ähnliche Bedeutung wie der Glaube in der Monarchie, dass alle obrigkeitliche Gewalt von Gott kommt. Dieses Phänomen beschreibt Schmitt in einer gleichnamigen Schrift als Politische Theologie. Für ihn deutet sich an, dass das jeweils vorherrschende Weltbild und die Ausprägung der Staatsform in einem Zusammenhang stehen.

Damit verbunden finden sich die Begriffe Souveränität, als die Fähigkeit über den (politischen) Ausnahmezustand zu entscheiden, und das Politische, als die Fähigkeit Freund und Feind zu unterscheiden, wieder. Denn alles dies mündet zwangsläufig auch in die Politische Theologie, insofern das Weltbild maßgeblich die Erkenntnis der Normalität wie die Freund-Feind-Scheidungen determiniert. Angesichts eines offiziellen Kampfes gegen Rechts ist der Standardvorwurf gegenüber Schmittianern, unbilligerweise an Freund-Feind-Denkweisen festzuhalten, eine einzige an Idiotie grenzende Groteske, seitens derer, die als politischen Feind den Nazi samt seinen Wegbereitern überall zu sehen glauben.

Intellektuelle Vorwegnahme der Bundesrepublik Deutschland

Neben den grundsätzlichen Begriffsklärungen, finden sich im Gesamtwerk Schmitts auch Deutungsmuster juristischer Gestaltung imperialer Politik. Am Beispiel der besetzten Rheinlande („Die Rheinlande als Objekt internationaler Politik“ in Positionen und Begriffe, 3. Aufl., D&H) erläutert er, warum Annexionen und Protektoratsbildungen veraltete Mittel der imperialen Machtausübung sind, und wie es dem eingreifenden Staat mithilfe von unbestimmten Rechtsbegriffen wie Schutz fremder Interessen, Schutz der Unabhängigkeit, öffentliche Ordnung und Sicherheit, Einhaltung internationaler Verträge undsoweiter gelingt, die politische Existenz eines vordergründig in die Souveränität entlassenen Staates weiterhin in den Händen zu behalten.

Die herrschende Macht schafft internationale Vertragswerke, deren Auslegung sie kraft ihres Machtstatus letztendlich selbst bestimmen kann. Carl Schmitt hat damit auch die babylonische Gefangenschaft Deutschlands in ihrer heutigen Form lange vorweggenommen. Ein unerschöpflicher Fundus für alle: aber unverzichtbar für Politik- und Jurastudenten.

 

Carl Schmitt: Der Begriff des Politischen. Text von 1932 mit einem Vorwort und drei Corollarien. Broschiert. Duncker & Humblot 2009. 116 Seiten. 22 Euro.

Ders.: Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus. Broschiert. Duncker & Humblot 2010. 90 Seiten. 18 Euro.

mardi, 27 avril 2010

Ibntroduccion a los "Dialogos sobre el poder" de Carl Schmitt

Los alemanes de ahora tienen muy poco tiempo, deben leer necesariamente Kafka,

se deben fatigar y estar siempre listos para convalecer de tanto Kafka.

Carl Schmitt a Ernst Jünger, carta del 23.01.1955 


Introducción a los Diálogos sobre el poder de Carl Schmitt

Giovanni B. Krähe / Ex: http://geviert.wordpress.com/

Recientemente se han publicado dos nuevas traducciones de las obras de Carl Schmitt: Las memorias durante la prisión luego de la Segunda Guerra, publicadas con el título Ex captivitate salus y los Diálogos sobre el poder. La primera traducción ha sido publicada por la editorial española Trotta, que tiene en su catálogo también una nueva traducción de la Teología política. El segundo libro ha sido editado por  el Fondo de Cultura Económica. Se trata de la traducción de la obra de Carl Schmitt Gespräch über die Macht und den Zugang zum Machthaber. El título de la edición castellana es: diálogos sobre el poder y el acceso al poderoso. No hace mucho estos diálogos han sido republicados también en Alemania por la editorial Klett-Cotta. Quisiéramos ocuparnos sobre este segunda novedad editorial, los diálogos sobre el poder.

Schmitt publicó  este breve libro en 1954 con el editor Neske a partir de la transcripción de un diálogo radiofónico imaginario que creó para la ocasión. La propuesta original era, en realidad, un diálogo (que no se concretizó) con el politólogo y sociólogo Raymond Aron sobre el concepto de poder. Otros posibles invitados serían los sociológos Helmut Schelsky y Arnold Gehlen. Schmitt pensó que el diálogo sobre el tema con tales invitados hubiese sido demasiado sofisticado para la idea que tenía en mente, motivo que lo llevó a decidirse por un guión de diálogo para ser  leído por dos interlocutores cualquiera, uno anciano y el otro joven. El guión original fue transmitido finalmente en una programa radial con el título “principios del poder”, el 22.06.1954. De ese guión nace el presente libro. Se trata de una obra entre la teoría política realista, la ironía sutil, y el estilo del diálogo apodíptico sobre el concepto de Poder (Macht). La teología política schmittiana está en el fondo del diálogo. Al inicio del post se puede ver la imagen de la primera edición del libro con el editor Neske (a la izquierda la edición del FCE). En la biografía de nuestro autor, los diálogos es un texto simbólico clave, porque significa el inicio de la influencia intelectual de Schmitt – desde el silencio en su casa de Plettenberg – en la reconstrucción constitucional-liberal de Alemania (se lea bien), luego de la Segunda Guerra. En efecto, algo que voluntariamente omiten los críticos, apologistas y demás engañamuchachos al paso de Carl Schmitt, cuando relatan pedagógicamente sobre la biografía o la obra del autor, es su influencia en el fortalecimiento constitucional de la Grundgesetz (la ley fundamental, la actual constitución alemana), entre otras constituciones por el mundo (la constitución israelí por ejemplo). Conceptos schmittianos claves y decisivos en la actual politología alemana – por ejemplo el concepto de konstruktives Misstrauenvotum, moción constructiva de censura* - , o en la doctrina constitucional – por ejemplo el concepto de Verfassungswirklichkeit, realidad (fáctica, material) de la Constitución -, fueron conceptos (ambos típicamente liberal-garantistas), introducidos por Schmitt en el debate especializado de la época. Ambas categorías son válidas hasta el día de hoy.

(*) Sobre el concepto de moción constructiva, la (cada vez peor) enciclopedia online Wikipedia  menciona el nombre de Schmitt curiosamente mal escrito.

Los Diálogos

Dada la importancia de este breve libro para entender el concepto y la teoría del poder que Schmitt maneja en el resto de su obra, quisiéramos proponer una breve nota introductoria a partir de una revisión nuestra, comentada, de la traducción de este libro de Schmitt, a partir de la edición original alemana.  No tenemos acceso a la nueva edición del FCE, por lo tanto vamos a revisar la traducción castellana aparecida en la Revista de Estudios Políticos, 1954, 52, Nr. 78, p. 3-20 (descargable aquí). La revista no lo menciona, pero es probable que esta primera versión española haya sido traducida por Anima Schmitt, la hija del autor. El lector que posea la nueva edición de la FCE puede comentar comparativamente la pertinencia de la versión crítica que proponemos. Al mismo tiempo nos podrá comentar si la edición del FCE es efectivamente nueva o simplemente es una copia de la versión de Estudios políticos. Esperamos que, en este caso, la gente del FCE al menos cite, dados los precedentes con la (mala) introducción al  libro Teología política.

A continuación la traducción revisada. Se tome suma atención a la versión que proponemos, puesto que notamos que las versiones castellanas (al menos esta que revisamos) no toman en cuenta las peculiaridades de la versión alemana. Ya hemos notado lo mismo con Heidegger (se medite). Se trata de (aparentes) formalismos que influyen en la compresión final del texto, a nuestro parecer. Iremos publicando poco a poco las revisiones. Siendo un guión radiofónico, al final intentaremos presentar una versión grabada del diálogo entre miembros del Geviert-Kreis.

Texto original: Carl Schmitt: Gespräch über die Macht und den Zugang zum Machthaber, Pfullingen: Neske,1954 (1).

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¿Vosotros sois felices?

¡Nosotros somos poderosos!

LORD BYRON

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PROTAGONISTAS DEL DIÁLOGO:

E.- (un joven estudiante pregunta) (2)

C. S.- (responde)

El Intermezzo puede ser leído por una tercera persona.

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E.-Antes de que hable Usted sobre el poder, tengo que preguntarle una cosa.

C. S.- Dígame, por favor, Señor E.

E.- ¿Usted mismo tiene algún poder o no tiene Usted ninguno?

C. S.- Esta pregunta es muy pertinente y justificada. Quien hable del poder debería decir previamente en que situación de poder se encuentra él mismo (3).

E.- ¡Aja! Pues bien entonces, ¿tiene Usted poder o no lo tiene?

C. S.- Yo no tengo poder. Soy de los que carecen de poder.

E.- Esto es sospechoso.

C. S.- ¿Por qué?

E.- Porque entonces probablemente estará Usted predispuesto contra el poder. Disgusto, amargura y resentimiento son peligrosas fuentes de errores.

C. S.- ¿Y si yo perteneciera a los que tienen poder?

E.- Entonces, probablemente, estaría usted predispuesto a favor del poder. También el interés por el propio poder y su mantenimiento son, naturalmente, fuente de errores.

C. S.- ¿Quién, entonces, tiene derecho a hablar sobre el poder?

E.- ¡Esto debería decírmelo Usted! (4).

C. S.- Yo diría que quizá existe aún otra posición: la de la observación y descripción desinteresadas.

E.- ¿Este sería entonces el papel del tercer hombre o de la inteligencia flotando libremente? [N.d.T. freischwebende Inteligenz] (5)

C. S.- ¡Y dale con la inteligencia! Es mejor que no empecemos con tales subsunciones. Intentemos enfocar más bien primeramente con precisión un fenómeno histórico que todos podamos vivir o padecer. El resultado se mostrará por sí mismo.

1.

E.- Hablamos, entonces, del poder que ejercen los hombres sobre los otros hombres. ¿De dónde procede realmente el inmenso poder que, pongamos por caso, Stalin, Roosevelt o cualquier otro que pueda citarse, han ejercido sobre millones de hombres?

C. S.-En tiempos pasados se hubiese podido responder: el poder procede de la naturaleza o de Dios.

E.-Me temo que hoy en día el poder ya no nos parece algo natural.

C. S.-Eso me lo temo yo también. Frente a la naturaleza nos sentimos hoy muy superiores. Ya no la tememos. Cuando nos resulta molesta, ya sea como enfermedad o como catástrofe natural, tenemos la esperanza de vencerla pronto. El hombre -por naturaleza un ser viviente débil- se ha elevado poderosamente sobre cuanto le rodea con ayuda de la técnica. Se ha hecho el señor de la naturaleza y de todos los seres vivientes de este mundo. La barrera que sensiblemente le oponía, en otros tiempos, la naturaleza -con fríos y calores, con hambres y carestías, con animales salvajes y peligros de toda índole- empieza a ceder visiblemente.

E.-Es cierto. Hoy en día no tenemos que temer a ningún animal salvaje.

C.S.-Las hazañas de Hércules nos parecen hoy poca cosa; y si hoy un león o un lobo aparecen en una gran ciudad moderna, constituiría, todo lo más, un entorpecimiento de la circulación, y apenas se asustarían los niños. Frente a la naturaleza, el hombre se siente hoy tan superior, que se permite el lujo de instalar parques protegidos.

E.-¿Y qué sucede con Dios?

C. S.-En lo que respecta a Dios, el hombre moderno -aludo al típico habitante de la gran ciudad- tiene también el sentimiento de que Dios retrocede o que se ha retirado de nosotros. Cuando surge hoy el nombre de Dios, el hombre de cultura media de nuestros días cita automáticamente la frase de Nietzsche: Dios ha muerto. Otros, aún mejor informados, citan una frase del socialista francés Proudhon, que precede de cuarenta años a la frase de Nietzsche y que afirma: Quién dice Dios quiere engañar.

E.-Si el poder no procede ni de la naturaleza ni de Dios, ¿de dónde proviene entonces?

C. S.-Entonces solo nos queda una posibilidad: el poder que un hombre ejerce sobre otros hombres procede del hombre mismo.

E.- ¡Ah! bueno, eso está mejor. Hombres lo somos evidentemente todos finalmente. También Stalin fue un hombre; también Roosevelt o quienquiera se nos ocurra citar aquí.

C. S.-Claro, eso suena realmente tranquilizador. Si el poder que un hombre ejerce sobre otros procede de la naturaleza, entonces es, o bien el poder del progenitor sobre su prole, o la supremacía de los colmillos, de los cuernos, garras, pezuñas, vejigas ponzoñosas y otras armas naturales. Pienso que podemos prescindir aquí del poder del progenitor sobre su prole. Nos queda, pues, el poder del lobo sobre el cordero. Un hombre que tiene poder sería un lobo frente al hombre que no tiene poder. Quien no tiene poder se siente como cordero hasta que, por su parte, alcanza la situación de poderoso y desempeña el papel del lobo. Esto lo confirma el adagio latino Homo homini lupus. En castellano: el hombre es un lobo para el hombre.

E.-¡Pero qué horror! ¿Y si el poder procede de Dios?

C. S.-Entonces, el que lo ejerce es posesor de una cualidad divina. Con su poder adquiere algo divino que mantiene consigo. Algo que se debería venerar, si no a él mismo, sí al poder de Dios que se da en el posesor. Esto lo confirma el adagio latino Homo homini Deus. En castellano: el hombre es un Dios para el hombre.

E.-¡Oh! ¡Esto sí que es demasiado!

C. S.- Pero si el poder no procede entonces ni de la naturaleza ni de Dios, todo lo que se refiere al poder y a su ejercicio acontece exclusivamente entre hombres. Entonces estamos los hombres entre nosotros mismos. Los posesores de poder están frente a los sin poder, los potentes frente a los impotentes. Sencillamente, hombres frente a hombres.

E.-Así es. El hombre es un hombre para el hombre.

C. S.- En efecto, lo confirma el adagio latino Homo homini homo (6).

(sigue)

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Comentarios

(1) El alemán Machthaber indica una separación entre la naturaleza del poder (Macht) y aquel que lo posee o lo representa: el detentador, el posesor (Haber) del poder. El adjetivo castellano poderoso (cfr. RAE) tiene connotaciones psicológicas (colmo, magnífico, excelente, virtuoso)  que el término alemán no posee (tampoco el término correspondiente mächtig, poderoso). Machthaber sin embargo (cfr. WAHRIG), tiene una connotación negativa en el alemán actual, relativo al poder dictatorial. Esta distinción entre el poder, su esencia, su naturaleza por un lado,  y su posesor por el otro, es muy importante para entender lo que Schmitt explicará durante todo el breve tratado sobre el poder en sus diferentes dimensiones (tres específicas, se vea más adelante). Una distinción similar se puede encontrar en el término alemán Inhaber. Este particular del término Machthaber se puede notar también en una carta del 1954 al editor Neske.  En esta carta, Schmitt comenta los posibles títulos para su breve texto. Dos títulos posibles le propone al editor: 1) Der Zugang zur Macht (el acceso al poder) 2) Raum und Vorraum menschlicher Macht (espacio y antesala del poder humano). Se note la importancia del significado espacial, local que Schmitt quiere darle al título (Zugang, acceso a ; Raum, Vorraum, lugar, espacio, antesala). Tenemos, entonces, un tercer elemento: el poder, el representante y el lugar donde esta unión se da concretamente (se vaya reflexionando las implicaciones para la teoría de la representación política). En aquella carta, Schmitt preferirá provisoriamente una combinación de las dos opciones con el siguiente título posible: Der Zugang zur Macht. Ein Gespräch über den Raum und über den Vorraum menschlicher Macht (El acceso al poder. Una diálogo sobre el espacio y la antesala del poder humano).

(2) En la edición alemana el interlocutor de Schmitt es un Jugend, un joven. Para la preparación del primer manuscrito, Schmitt grabó el diálogo con su hija Anima en una cinta magnetofónica. En aquel periodo Anima Schmitt estudiaba en Heidelberg. La idea detrás del rol de un interlocutor primerizo es poner a la prueba al jovencito de la nueva generación de posguerra (los futuros verdes, 68 y demás subculturas) que, para su gran desgracia, se pregunta y tiene que opinar sobre política (se adapte el rol al prurito posmoderno, siempre actual, del intelectual desencantado (des)comprometido).

(3) Se nos permita extender la moraleja al debate en otros posts sobre el argumento, es decir: quien tanto se llena la boca en Latinoamérica con el término ideología, análisis ideológico, poderes fácticos y demás, debería ser el primero en presentar un claro auto-análisis ideológico de sí mismo para que el lector sepa al menos desde qué lugar está analizando las relaciones de poder. Nada. Medio siglo de análisis ideológicos para ocultar la buena ideología. Si el analista no lo hace, el lector puede deducir rápidamente  con qué tipo de prestidigitadores está tratando.

(4) Usted en cursivo. Se note cómo Schmitt considera la posesión y la falta de poder, por igual, como fuentes de error (estar a favor o en contra del poder) para la compresión de la naturaleza del poder (¡genitivo subjetivo!). El poder tiene su propria dimensión, que deberá ser delimitada debidamente en el resto del texto, a partir del análisis del acceso a ella de parte del posesor. Al final, Schmitt pone puntualmente el acento con ese Usted para referirse a aquel que está planteando el problema sobre el poder ahora, es decir el joven que ha iniciado la interrogación determinando la pregunta y que ahora exige una respuesta. Se note en el texto la sutil paradoja que Schmitt (que es también el mismo joven) no responde expresamente.

(5) En el texto alemán no hay referencias a esta línea oscura. En castellano tampoco quiere decir nada por sí misma, traducida literalmente. Es muy probable que Schmitt se esté refiriendo irónicamente con esa “inteligencia flotante” al autor de Ideología y utopía, el sociólogo marxista Karl Mannheim que introduce precisamente el concepto de “freischwebende Intelligenz”. Este concepto es una especie de curiosa epoché teórica que permite al analista marxista evitar la paradoja de no ser ideológico mientras aplica su método de análisis ideológico. De esta manera puede neutralizar fácilmente a sus enemigos políticos. Sobre el “tercer hombre” es probable (por ahora una mera suposición) que Schmitt se esté refiriendo irónicamente a la obra de Graham Greene: “The Third Man” (título de un famosa película filmada en Austria, después de la Segunda Guerra).

(6) Tres tipos de genealogía del poder: Homo homini lupus, homo homini Deus y homo homini homo. Se note que Schmitt está relacionando la fenomenología del poder a partir de tres precisas dimensiones bien distintas, ya notas durante el medioevo: Dios, hombre, naturaleza (en este orden, con el hombre en medio). Se recuerde la nota al inicio del post, sobre la importancia del significado locativo en la definición de poder. Este particular también es importante para la compresión del término Nomos. A partir de estas tres precisas dimensiones Schmitt observa tres relaciones diferentes de poder: 1) en relación a Dios (poder divino), 2) en relación a otros hombres (obediencia y autoridad), 3) en relación a la naturaleza (poder técnico). Mientras que las formas de ejercer el poder en relación a la primera y a la última dimensión (aparentemente) se pierden con la modernidad, la dimensión intermedia se expresa todavía claramente bajo la forma de la protección y la obediencia. Esto no quiere decir, sin embargo, que las mencionadas dos dimensiones laterales desaparezcan sin más, atención. Precisamente es lo que hará, por ejemplo, el maestro de Schmitt, Max Weber, recuperando para nosotros el concepto de Carisma.

The Lesson of Carl Schmitt

cs1.jpgThe Lesson of Carl Schmitt

Translated by Greg Johnson

Ex: http://www.toqonline.com/

We met Carl Schmitt in the village of Plettenberg, the place of his birth and retirement. For four remarkable hours we conversed with the man who remains unquestionably the greatest political and legal thinker of our time. “We have been put out to pasture,” said Schmitt. “We are like domestic animals who enjoy the benefits of the closed field we are allotted. Space is conquered. The borders are fixed. There is nothing more to discover. It is the reign of the status quo . . .”

Schmitt always warned against this frozen order, which extends over the Earth and ruins political sovereignties. Already in 1928, in The Concept of the Political,[1] he detects in the universalist ideologies, those “of Rights, or Humanity, or Order, or Peace,” the project of transforming the planet into a kind of depoliticized economic aggregate which he compares to a “bus with its passengers” or a “building with its tenants.” And in this premonition of a world of the death of nations and cultures, the culprit is not Marxism but the liberal and commercial democracies. Thus Schmitt offers one of the most acute and perspicacious criticisms of liberalism, far more profound and original than the “anti-democrats” of the old reactionary right.

He also continues the “realist” manner of analyzing of politics and the state, in the tradition of Bodin, Hobbes, and Machiavelli. Equally removed from liberalism and modern totalitarian theories (Bolshevism and fascisms), the depth and the modernity of his views make him the most important contemporary political and constitutional legal theorist. This is why we can follow him, while of course trying to go beyond some of his analyses, as his French disciple Julien Freund, at the height of his powers, has already done.[2]

The intellectual journey of the Rhenish political theorist began with reflections on law and practical politics to which he devoted two works, in 1912 and 1914,[3] at the end of its academic studies in Strasbourg. After the war, having become a law professor at the universities of Berlin and Bonn, his thoughts were focused on political science. Schmitt, against the liberal philosophies of the Right, refused to separate it from politics.

His first work of political theory, Political Romanticism (1919),[4] is devoted to a critique of political romanticism which he opposes to realism. To Schmitt, the millennialist ideals of the revolutionary Communists and the völkisch reveries of the reactionaries seemed equally unsuitable to the government of the people. His second great theoretical work, Die Diktatur [Dictatorship] (1921),[5] constitutes, as Julien Freund writes, “one of the most complete and most relevant studies of this concept, whose history is analyzed from the Roman epoch up to Machiavelli and Marx.”[6]

Schmitt distinguishes “dictatorship” from oppressive “tyranny.” Dictatorship appears as a method of government intended to face emergencies. In the Roman tradition, the dictator’s function was to confront exceptional conditions. But Machiavelli introduces a different practice; he helps to envision “the modern State,” founded on rationalism, technology, and the powerful role of a complex executive: this executive no longer relies upon the sole sovereign.

Schmitt shows that with the French jurist Jean Bodin, dictatorship takes to the form of a “practice of the commissars” which arose in the sixteen and seventeenth centuries. The “commissars” are omnipotent delegates of the central power. Royal absolutism, established on its subordinates, like the Rousseauist model of the social contract which delegates absolute power to the holders of the “general will” set up by the French revolution, constitutes the foundation of contemporary forms of dictatorship.

From this point of view, modern dictatorship is not connected with any particular political ideology. Contrary to the analyses of today’s constitutionalists, especially Maurice Duverger, “democracy” is no more free of dictatorship than is any other form of state power. Democrats are simply deceiving themselves to think that they are immune to recourse to dictatorship and that they reconcile real executive power with pragmatism and the transactions of the parliamentary systems.

In a fundamental study on parliamentarism, The Crisis of Parliamentary Democracy (1923),[7] Schmitt ponders the identification of democracy and parliamentarism. To him, democracy seems to be an ideological and abstract principle that masks specific modalities of power, a position close to those of Vilfredo Pareto and Gaetano Mosca. The exercise of power in “democracy” is subject to a rationalist conception of the state which justified, for example, the idea of the separation of powers, the supposedly harmonious dialogue between parties, and ideological pluralism. It is also the rationality of history that founds the dictatorship of the proletariat. Against the democratic and parliamentarian currents, Schmitt places the “irrationalist” currents, particularly Georges Sorel and his theory of violence, as well as all non-Marxist critiques of bourgeois society, for example Max Weber.

This liberal bourgeois ideology deceives everyone by viewing all political activity according to the categories of ethics and economics. This illusion, moreover, is shared by liberal or Marxist socialist ideologies: the function of public power is no longer anything but economic and social. Spiritual, historical, and military values are no longer legitimate. Only the economy is moral, which makes it possible to validate commercial individualism and at the same time invoke humane ideals: the Bible and business. This moralization of politics not only destroys all true morals but transforms political unity into neutralized “society” where the sovereign function is no longer able to defend the people for whom it is responsible.

By contrast, Schmitt’s approach consists in analyzing the political phenomenon independently of all moral presuppositions. Like Machiavelli  and Hobbes, with whom he is often compared, Schmitt renounces appeals to the finer feelings and the soteriology of final ends. His philosophy is as opposed to the ideology of the Enlightenment  (Locke, Hume, Montesquieu, Rousseau, etc.) and the various Marxian socialisms as it is to Christian political humanism. For him, these ideologies are utopian in their wariness of power and tend to empty out the political by identifying it with evil, even if it is allowed temporarily—as in the case of Marxism.

But the essence of Schmitt’s critique relates to liberalism and humanism, which he accuses of deception and hypocrisy. These theories view the activity of public power as purely routine administration dedicated to realizing individual happiness and social harmony. They are premised on the ultimate disappearance of politics as such and the end of history. They wish to make collective life purely prosaic but manage only to create social jungles dominated by economic exploitation and incapable of mastering unforeseen circumstances.

Governments subject to this type of liberalism are always frustrated in their dreams of transforming politics into peaceful administration: other states, motivated by hostile intentions, or internal sources of political subversion, always emerge at unforeseen moments. When a state, through idealism or misunderstood moralism, no longer places its sovereign political will above all else, preferring instead economic rationality or the defense of abstracted ideals, it also gives up its independence and its survival.

Schmitt does not believe in the disappearance of the political. Any type of activity can take on a political dimension. The political is a fundamental concept of collective anthropology. As such, political activity can be described as substantial, essential, enduring through time. The state, on the other hand, enjoys only conditional authority, i.e., a contingent form of sovereignty. Thus the state can disappear or be depoliticized by being deprived of the political, but the political—as substantial—does not disappear.

The state cannot survive unless it maintains a political monopoly, i.e., the sole power to define the values and ideals for which the citizens will agree to give their lives or to legally kill their neighbors—the power to declare war. Otherwise partisans will assume political activity and try to constitute a new legitimacy. This risk particularly threatens the bureaucratic states of modern liberal social democracies in which civil war is prevented only by the enervating influence of consumer society.

These ideas are expressed in The Concept of the Political, Schmitt’s most fundamental work, first published in 1928, revised in 1932, and clarified in 1963 by its corollary Theory of the Partisan.[8] Political activity is defined there as the product of a polarization around a relation of hostility. One of the fundamental criteria of a political act is its ability to mobilize a population by designating its enemy, which can apply to a party as well as a state. To omit such a designation, particularly through idealism, is to renounce the political. Thus the task of a serious state is to prevent partisans from seizing the power to designate enemies within the community, and even the state itself.

Under no circumstances can politics be based on the administration of things or renounce its polemical dimension. All sovereignty, like all authority, is forced to designate an enemy in order to succeed in its projects; here Schmitt’s ideas meet the research of ethologists on innate human behavior, particularly Konrad Lorenz.

Because of his “classical” and Machiavellian conception of the political, Schmitt endured persecution and threats under the Nazis, for whom the political was on the contrary the designation of the “comrade” (Volksgenosse).

The Schmittian definition of the political enables us to understand that contemporary political debate is depoliticized and connected with electoral sideshows. What is really political is the value for which one is ready to sacrifice one’s life; it can quite well be one’s language or culture. Schmitt writes in this connection that “a system of social organization directed only towards the progress of civilization” does not have “a program, ideal, standard, or finality that can confer the right to dispose of the physical life of others.” Liberal society, founded on mass consumption, cannot require that one die or kill for it. It rests on an apolitical form of domination: “It is precisely when it remains apolitical,” Schmitt writes, “that a domination of men resting on an economic basis, by avoiding any political appearance and responsibility, proves to be a terrible imposture.”

Liberal economism and “pluralism” mask the negligence of the state, the domination of the commercial castes, and the destruction of nations anchored in a culture and a history. Along with Sorel, Schmitt pleads for a form of power that does not renounce its full exercise, that displays its political authority by the normal means that belong to it: power, constraint, and, in exceptional cases, violence. By ignoring these principles the Weimar Republic allowed the rise of Hitler; the techno-economic totalitarianism of modern capitalism also rests on the ideological rejection of the idea of state power; this totalitarianism is impossible to avoid because it is proclaimed humane and is also based on the double idea of social pluralism and individualism, which put the nations at the mercy of technocratic domination.

The Schmittian critique of internal pluralism as conceived by Montequieu, Locke, Laski, Cole, and the whole Anglo-Saxon liberal school, aims at defending the political unity of nations, which is the sole guarantor of civic protection and liberties. Internal pluralism leads to latent or open civil war, the fierce competition of economic interest groups and factions, and ultimately the reintroduction within society of the friend-enemy distinction which European states since Bodin and Hobbes had displaced outwards.

Such a system naturally appeals to the idea of “Humanity” to get rid of political unities.  “Humanity is not a political concept,” writes Schmitt, who adds:

The idea of Humanity in doctrines based on liberal and individualistic doctrines of natural Right is an ideal social construction of universal nature, encompassing all men on earth. . . . which will not be realized until any genuine possibility of combat is eliminated, making any grouping in terms of friends and enemies impossible. This universal society will no longer know nations. . . . The concept of Humanity is an ideological instrument particularly useful for imperialistic expansion, and in its ethical and humane form, it is specifically a vehicle of economic imperialism. . . . Such a sublime name entails certain consequences for one who carries it. Indeed, to speak in the name of Humanity, to invoke it, to monopolize it, displays a shocking pretense: to deny the humanity of the enemy, to declare him outside the law and outside of Humanity, and thus ultimately to push war to the extremes of inhumanity.[9]

To define politics in terms of the category of the enemy, to refuse humanitarian egalitarianism, does not necessarily lead to contempt for man or racism. Quite the contrary. To recognize the polemical dimension of human relations and man as “a dynamic and dangerous being,” guarantees respect for  any adversary conceived as the Other whose cause no less legitimate than one’s own.

This idea often recurs in Schmitt’s thought: modern ideologies that claim universal truth and consequently consider the enemy as absolute, as an “absolute non-value,” lead to genocide. They are, moreover, inspired by monotheism (and Schmitt is a Christian pacifist and convert). Schmitt claims with good reason that the conventional European conception that validated the existence of the enemy and admitted the legitimacy of war—not for the defense of a “just” cause but as eternally necessitated by human relations—caused fewer wars and induced respect for the enemy considered as adversary (as hostis and not inimicus).

Schmitt’s followers, extending and refining his thought, have with Rüdiger Altmann coined the concept of the Ernstfall (emergency case), which constitutes another fundamental criterion of the political. Political sovereignty and the credibility of a new political authority is based on the capacity to face and solve emergency cases. The dominant political ideologies, thoroughly steeped in hedonism and the desire for security, want to ignore the emergency, the blow of fate, the unforeseen. Politics worthy of the name—and this idea pulverizes the abstract ideological categories of “right” and “left”—is that which, secretly, answers the challenge of the emergency case, saves the community from unforeseen trials and tempests, and thereby authorizes the total mobilization of the people and an intensification of its values.

Liberal conceptions of politics see the Ernstfall merely as the exception and “legal normality” as the rule. This vision of things, inspired by Hegel’s teleological philosophy of history, corresponds to the domination of the bourgeoisie, who prefer safety to historical dynamism and the destiny of the people. On the contrary, according to Schmitt, the function of the sovereign is his capacity to decide the state of the exception, which by no means constitutes an anomaly but a permanent possibility. This aspect of Schmitt’s thought reflects his primarily French and Spanish inspirations (Bonald, Donoso Cortès, Bodin, Maistre, etc.) and makes it possible to locate him, along with Machiavelli, in the grand Latin tradition of political science.

In Legality and Legitimacy (1932),[10] Schmitt, as a disciple of Hobbes, suggests that legitimacy precedes the abstract concept of legality. A power is legitimate if it can protect the community in its care by force.  Schmitt accuses the idealistic and “juridical” conception of legality for authorizing Hitler to come to power. Legalism leads to the renunciation of power, which Schmitt calls the “politics of non-politics” (Politik des Unpolitischen), politics that does not live up to its responsibilities, that does not formulate a choice concerning the collective destiny. “He who does not have the power to protect anyone,” Schmitt writes in The Concept of the Political, “also does not have the right to require obedience. And conversely, he who seeks and accepts power does not have the right to refuse obedience.”

This dialectic of power and obedience is denied by social dualism, which arbitrarily opposes society and the sovereign function and imagines, contrary to all experience, that exploitation and domination are the political effects of “power” whereas they much more often arise from economic dependency.

Thus Schmitt elaborates a critique of the dualistic State of the nineteenth century based on the conceptions of John Locke and Montesquieu aiming at a separation between the sphere of the State and the private sphere. In fact, modern technocracies, historically resulting from the institutions of parliamentary representation, experience interpenetrations and oppositions between the private and public, as shown by Jürgen Habermas. Such a situation destabilizes the individual and weakens the State.

According to Schmitt, it is this weakness of the democracies that allowed the establishment of one party regimes, as he explains in Staat, Bewegung, Volk [State, Movement, People].[11] This type of regime constitutes the institutional revolution of the twentieth century; in fact, it is today the most widespread regime in the world. Only Western Europe and North America preserved the pluralist structure of traditional democracy, but merely as a fiction, since the true power is economic and technical.

The one party state tries to reconstitute the political unity of the nation, according to a threefold structure: the state proper includes civil servants and the army; the people are not a statistical population but an entity that is politicized and strongly organized in intermediate institutions; the party puts this ensemble in motion (Bewegung) and constitutes a portal of communication between the state and the people.

Schmitt, who returns again and again to Nazism, Stalinism, theocracies, and humanitarian totalitarianisms, obviously does not endorse the one party state. He does not advocate any specific “regime.” In the old Latin realist tradition inherited from Rome, Schmitt wants an executive who is both powerful and legitimate, who does not “ideologize” the enemy and can, in actual cases make use of force, who can make the state the “self-organization of society.”

War thus becomes a subject of political theory. Schmitt is interested in geopolitics as a natural extension of politics. For him, true politics, great politics, is foreign policy, which culminates in diplomacy. In The Nomos of the Earth (1951),[12] he shows that the state follows the European conception of politics since the sixteenth century. But Europe has become decadent: the bureaucratic state has been depoliticized and no longer allows the preservation of the history of the European people; the jus publicium europaeum which decided inter-state relations is declining in favor of globalist and pacifist ideologies that are incapable of founding an effective international law. The ideology of human rights and the vaunted humanitarianism of international institutions are paradoxically preparing a world where force comes before law. Conversely, a realistic conception of the relations between states, which allows and normalizes conflict, which recognizes the legitimacy of will to power, tends to civilize the relationship between nations.

Schmitt is, along with Mao Tse-Tung, the greatest modern theorist of revolutionary war and of the enigmatic figure of the partisan who, in this era of the depoliticization of states, assumes the responsibility of the political, “illegally” designates his enemies, and indeed blurs the distinction between war and peace.[13]

Such “a false pacifism” is part of a world where political authorities and independent sovereignties are erased by a world civilization more alienating than any tyranny. Schmitt, who influenced the constitution of the Fifth French Republic—the French constitution that is most intelligent, most political, and the least inspired by the idealism of the Enlightenment—gives us this message: liberty, humanity, peace are only chimeras leading to invisible oppressions. The only liberties that count—whether of nations or individuals—are those guaranteed by the legitimate force of a political authority that creates law and order.

Carl Schmitt does not define the values that mobilize the political and legitimate the designation of the enemy. These values must not be defined by ideologies—always abstract and gateways to totalitarianism—but by mythologies. In this sense, the functioning of government, the purely political, is not enough. It is necessary to add the “religious” dimension of the first function, as it is defined in Indo-European tripartition. It seems to us that this is the way one must complete Schmitt’s political theory. Because if Schmitt builds a bridge between anthropology and politics, one still needs to build another between politics and history.


[1] Carl Schmitt, The Concept of the Political, trans. George Schwab, expanded edition (Chicago: University of Chicago Press, 2007)—trans.

 

[2] Cf. Julien Freund, L’Essence du politique (Paris: Sirey, 1965), and La Fin de la Renaissance (Paris: PUF, 1980).

[3] Carl Schmitt, Gesetz und Urteil. Eine Untersuchung zum Problem der Rechtspraxis [Law and Judgment: An Investigation into the Problem of Legal Practice] [1912] (Munich: C. H. Beck, 1968) and Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen [The Value of the State and the Meaning of the Individual] (Tübingen: J. C. B. Mohr [Paul Siebeck], 1914)—trans.

[4] Carl Schmitt, Political Romanticism, trans. Guy Oakes (Cambridge, Mass: The MIT Press, 1985).—trans.

[5] Carl Schmitt, Die Diktaur: Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf [The Dictator: From the Origins of Modern Theories of Sovereignty to Proletarian Class Struggle] (Berlin: Duncker & Humblot, 1921)—trans.

[6] In his Preface to the French edition of The Concept of the Political: Carl Schmitt, La notion de politique (Paris: Calmann-Lévy, 1972).

[7] Carl Schmitt, The Crisis of Parliamentary Democracy, trans. Ellen Kennedy (Cambridge, Mass.: The MIT Press, 1986). See also Carl Schmitt, Political Theology: Four Chapters on the Theory of Sovereignty [1922], trans. George Schwab (Cambridge, Mass.: The MIT Press, 1986)—trans.

[8] Carl Schmitt, Theory of the Partisan: Intermediate Commentary on the Concept of the Political, trans. G. L. Ulmen (New York: Telos Press, 2007)—trans.

[9] Cf. The Concept of the Political, 53–54—trans.

[10] Carl Schmitt, Legality and Legitimacy, trans. Jeffrey Seitzer (Durham, N.C.: Duke University Press, 2004)—trans.

[11] Staat, Bewegung, Volk: Die Dreigleiderung der politischen Einheit [State, Movement, People: The Three Organs of Political Unity] (Hamburg: Hanseatische Verlagsanstalt, 1934)—trans. It concerns a series of studies on one-party states, primarily Marxist, that appeared in 1932.

[12] Carl Schmitt, The Nomos of the Earth in the International Law of Jus Publicum Europaeum, trans. G. L. Ulmen (New York: Telos Press, 2006)—trans.

[13] Cf. “The Era of Neutralizations and Depoliticizations” [1929], trans. Matthias Konzett and John P. McCormick, in the expanded edition of The Concept of the Political—trans.

An interest in Carl Schmitt

Carl_Schmitt_thumb.jpgAn interest in Carl Schmitt

Ex: http://majorityrights.com/

Last month I put up a brief post titled Leviathan Rising.  It speculated on the general policy direction by which the transformation to a Leviathan superstate might be effected.  Of course, the times would be characterised by trauma injury to European societies made raceless, and therefore loveless and powerless - for without love between the people there can be no strength in them.

The approach of this condition we can all surmise from the evidence about us.  We read and write about it every day.  But let’s venture beyond.

In my post I argued that the “detachment into domestic policy blandness and irrelevance, and the shift to action abroad” would be the sign that the totalitarian Rubicon had finally been crossed.  But actually, I’ve just come across a better formulation from Leo Strauss in writings about his teacher, the great German jurist Carl Schmitt: “[It] would be a world of entertainment without politics and the possibility of struggle.” Recognise that?

Now, sixty-three years after the extinction of the system he helped to theorise, Schmitt is still the pre-eminent authority on matters of total dominion?  Addressing the riddle of how to despatch liberal democracy without triggering what Habermas has termed “the legitimation crisis”, he formulated a legal and philosophical legitimisation for dictatorship.  This he did through a number of influential works in the years up to 1933, when he finally joined the Nazi Party.  His thought, however, reduces to four core concepts:-

1. The concept of “Exception” from the normal restraints on state power in the absence of order.

2. The concept of “The Political”, as the dominion or theatre of action for the state (and the state alone).

3. The concept of “friend/enemy”.  In the racial sense applying in National Socialist Germany, this could be seen as the division into in-group/out-group from the standpoint of the state.  In our age, the “enemy” is European Man.  But it need not be racial, of course, and indeed is really just a means of defining the activism of “The Political” (or the interests of the elite).

4. “Nomos” or the historic dynamic out of which grew the European Age or Global Order of the 18th and 19th centuries, which Schmitt idealised and at the summit of which placed the development of the sovereign state.

It should be no surprise that for well over a decade now Carl Schmitt has been an object of study and fascination both on the liberal-left and the Straussian right.  I will explore some of his ideas in greater depth later on.  But to give you a flavour of the man I’m going to end this post with the transcripts from his interrogations at Nuremberg.

He was arrested by the Russians in Berlin in April 1945, interrogated and then released.  But six months later he was arrested by the Americans at the instigation of German Jews in OMGUS (Office of Military Government, United States), and interned until March 1947.  He was then interrogated by a prosecutor for the War Crimes Trials, Robert M. W. Kempner, on three occasions.  Here are the full transcripts of those interviews:-

Kempner: You do not have to testify, Professor Schmitt, if you do not want to, and if you think you are incriminating yourself. But if you do testify, then I would be grateful if you would be absolutely truthful, would neither conceal nor add anything.  Is that your wish?
Schmitt: Yes, of course.
Kempner: And if I come to something you might find self-incriminating, you can simply say you prefer to remain silent.
Schmitt: I have already been interrogated by the C.I.C. [U.S. Army counter-intelligence] and in the camp.  I would be glad to tell you all I know.  However, I would like to know what I am being blamed with. All previous interrogations ultimately ended in academic discussions.
Kempner: I do not know why anyone else has questioned you.  I will tell you quite candidly what I am interested in: your participation, direct and indirect, in the planning of wars of aggression, of war crimes and of crimes against humanity.
Schmitt: Planning wars of aggression is a new and very broad concept.
Kempner: I take it for granted that, as a professor of public law, you know exactly what a war of aggression is.  Do you agree with me on the fact that Poland, Norway, France, Russian, Denmark, Holland were invaded? Yes or no?
Schmitt: Of course.
Kempner: Did you not provide the ideological foundation for those kinds of things?
Schmitt: No.
Kempner: Could your writings be so interpreted?
Schmitt: I do not think so - not by anyone who has read them.
Kempner: Did you seek to achieve a new international legal order in accordance with Hitlerian ideas?
Schmitt: Not in accordance with Hitlerian ideas and not sought to achieve but diagnosed.
Kempner: What is your attitude toward the Jewish Question, in general, and how it was handled by the Third Reich?
Schmitt: It was a great misfortune and, indeed, from the very beginning.
Kempner: Did you consider the influence of your Jewish colleagues, who were teachers of international law, a misfortune?
Schmitt: With the exception of Erich Kaufmann, there were no Jewish legal scholars there [in Nazi Germany].  He was a belligerent militarist.  He originally coined the phrase “The social ideal is the victorious war,” in “Die Clausula rebus sic stantibus.”
Kempner: Now, however, Erich Kaufmann is not here, but you are.
Schmitt: I do not want to incriminate him.  I also would not like to create the impression of incriminating this man.
Kempner: Would you say there was a definite discussion between international and constitutional law influenced by Jews and that which you taught and advocated?
Schmitt: The standpoint of Jewish colleagues was not sufficiently homogeneous for that.
Kempner: Have you ever written such things?
Schmitt: I wrote only once that Jewish theorists have no understanding of this territorial theory.
Kempner: Where did you write that?
Schmitt: In a little essay in the Zeitschrift fur Raum-Forschung, 1940-41.
Kempner: What was that essay called?
Schmitt: I cannot recollect the title.
Kempner: Who published the journal?
Schmitt: The Reich Office for Raum Research.
Kempner: How long is the essay?
Schmitt: Volkerrechtliche Grossramordnung had 50 large octavo pages.
Kempner: How many editions?
Schmitt: I believe 5 or 6.  The essay was reprinted there from the Zeitschrift fur deutsche Raumforschung, published by Deutscher Rechtsverlag, a press of the National Socialist League of Jurists.
Kempner: It had a swastika on its publisher’s insignia?
Schmitt: Yes, of course.
Kempner: Reading your writings creates a completely different impression from the one you are now providing.
Schmitt: If one reads them completely, they have very little to do with the Jewish Question.
Kempner: You admit, however, that it [Volkerrechtliche Grossramordnung] is clearly an international legal theory of Lebensraum?
Schmitt: I call it Grossraum.
Kempner: Hitler was also for Grossraum.
Schmitt: All of them were probably for it, including the citizens of other countries.
Kempner: A reading of this essay shows it was written in the purest Hitler syle.
Schmitt: No.  I am proud of the fact that since 1936 I had nothing to do with that.
Kempner: Previously, therefore, you wrote in the Hitlerian style.
Schmitt: No, I did not say that.  Until 1936 I considered it possible to give meaning to these catchwords.
Kempner: You assumed the editorship of various journals, which previously you had not.  Die deutsche Juristenzeitung, for example?
Schmitt: From 1934 to 1936.
Kempner: Would it not have been better to have avoided becoming involved with that?
Schmitt: Yes, now one can say that.
Kempner: The accused is confronted with his publication Volkerrechtliche Grossramordnung, 4th Edition, and the following passage from page 63 is read to him: “The Jewish authors had, of course, as little to do with the previous development of Raum theory as they had with the creation of anything else.  They were also here an important cause of the dissolution of concretely-determined territorial orders.” Do you deny that this passage is in the purest Goebbels-style?  Yes or no?
Schmitt: I do deny that the content and form of that is in Goebbels’ style.  I would like to emphasize that the serious scholarly context of that passage should be taken into consideration.  In its intent, method, and formulation it is a pure diagnosis.
Kempner: Do you want to say anything else?
Schmitt: I am here as what?  As a defendent?
Kempner: That remains to be determined.
Schmitt: Everything I stated, in particular this passage, was intended as scholarship, as a scholarly thesis I would defend before any scholarly body in the world.
Kempner: Here, however, we are before a criminal court.  You were the directing, one of the leading jurists of the Third Reich.
Schmitt: Someone who in 1936 was publicly defamed in Das Schwarze Korps [the S.S. journal] cannot be described in that fashion.
Kempner: How does your interpretation fit with the fact that, after 1936, you delivered lectures financed by the Nazi Reich in Budapest, Bucharest, Salamanca and Barcelona; in the notorious espionage and propaganda institute, “The German Instiute in Paris,” and other places.  Did you deliver lectures?  Yes or no?
Schmitt: Yes, I did deliver lectures.  They were not paid for.
Kempner: Who paid for the trip?
Schmitt: Part [was paid] by the inviting societies, part by German agencies.
Kempner: Therefore: the Nazi Reich.
Schmitt: That was a forum for me; I had no other.
Kempner: You see that there is in this fact of your defamation, on the one hand, and your lectures, on the other, a certain contradiction very difficult for me to comprehend.
Schmitt: If you are interested in an explanation, I would be pleased to give you one.  This is the first conversation I have had about it since 1933.  I would like to discuss that.
Kempner: It is related to what extent you provided the scholarly foundation for war crimes, crimes against humanity, the forceful expansion and widening of Grossraum.  We are of the opinion that the executing agencies in the administration, the economy and the military are not more important than the men who conceived the theory and the plans for the entire affair.  Maybe you would like to write down what you have to say.  To what extent did you provide the theoretical foundation for Hitlerian Grossraum policy?
Schmitt: I will write it down.  This is thus the question to be answered.

(2)
Kempner: Were you so kind to write your answers?
Schmitt: It took a long time, because I was given a table so late.  May I give it to you?
Kempner: I must, of course, read through this later.  Who invited you to the German Institute in Paris?
Schmitt: The director, Dr. Epting, on the suggestion of certain gentlemen whom he knew.  The lecture was a pretext for the trip.  I was accompanied by Pierre Linn, a Jewish friend and his wife.
Kempner: I am interested in the German Institute.
Schmitt: I had very little to do with that.  The director was Epting.  The motivating force behind my invitation was Dr. Bremer.  He had many friends, including Frenchmen such as Alfred Fabre-Luce.
Kempner: Would you be so good as to sign the pages with your initials C.S.?  Are all the facts correct?  Then please write: The truth of the above statements is pledged on my word of honour.
Schmitt: Yes.  May I ask something else?
Kempner: What questions do you still have?
Schmitt: You wanted to lend me Volkerrechtliche Grossramordnung.
Kempner: You still have not received it?
Schmitt: No, I still have no answer from my wife.  May I request that my wife send me the manuscript of the lecture on the “Lage der europaischen Rechtswissenschaft”?  The manuscript is still with the publisher.  The lecture was basically intended for a Fetschrift for Popitz.  I have not said anything that is not contained in the manuscript.  That provides perhaps the best account of the remarks I made in Bucharest, Budapest, Madrid, Barcelona Coimbra.
Kempner: Have you now been able to reconcile yourself in any way to the role you played in the Third Reich and in the preparation of criminal offenses, as I interpret them?
Schmitt: Here we are not really disputing facts.  I accept them.  It is a question of interpretation and legal evaluation.  As a long-standing professor of jurisprudence, I cannot stop thinking.
Kempner: Nor should you.  To clarify again what the theory of the public prosecutor is: Did you participate in the preparation, etc. of wars of aggression and in other punishable offenses related to these at the point of decision-making?  What is your answer to that?  Could you state it concisely in a single sentence?
Schmitt: I neither served in a decision-making capacity, nor did I participate in the preparation of wars of aggression.
Kempner: Our theory about the term “point of decision-making” is as follows: is not one of the leading university professors in this field as least as important in the decision-making-process as other high state or party officials?
Schmitt: Also in a totalitarian state?
Kempner: Yes, particularly in a totalitarian system.  And furthermore: what we understand by wars of aggression is very clearly expressed in the decision of the IMT [International Military Tribunal in Nuremberg], with which you are familiar.
Schmitt: Yes, it would be good if I could have the complete text.  I have no material at all.  I have one final question, which is not connected with the preceding.  You mentioned the name Radbruch.  I hardly know him.  If you want to inquire about my activity as a professor during the last 10 years, I would request that you question colleagues who really have known me.
Kempner: Who, for example?
Schmitt: Carl Brinkmann.  He was in Berlin until 1944 and is now in Erlangen.
Kempner: I will be glad to question him.  Was he a party member?
Schmitt: No, otherwise he would not now be a professor in Erlangen.  I do not believe he was a party member.  It may not be pleasant for him to do that.  The Dr. Carl Schmitt myth is pure myth.  Carl Schmitt is quite a peculiar individual, not just a professor; he is also a composite of various other individuals.  I observed this when I was interrogated by Dr. Flechtheim.  You can inquire about that.
Kempner: I have my sources.
Schmitt: Radbruch is a politician.  He sees things in a particular way and does not understand that a person can sit quietly at a desk.
Kempner: Did Rousseau leave his desk?
Schmitt: No.
Kempner: Who else did not leave his desk?
Schmitt: Thomas Hobbes.
Kempner: It is very difficult to render a criminal judgment.
Schmitt: May I speak frankly?  I have now been in solitary confinement for 3 weeks ...
Kempner: You do not want to be alone?
Schmitt: I would like to be even more alone.  All possible questions were asked of me at the time I was placed under arrest.  I said then only: I would like to be able to speak about my case from my own perspective.  I desire only to clarify things to myself.  But my name, my physiognomy is too famous for me to be left alone.  I had hundreds of students in all countries, thousands of listeners.
Kempner: To the extent that it relates to audience, your reputation vacillates in history.
Schmitt: That will always be the case when someone takes a position in such situations.  I am an intellectual adventurer.
Kempner: You have the blood of an intellectual adventurer?
Schmitt: Yes, that is how thoughts and knowledge develop.  I assume the risk.  I have always accepted the consequences of my actions.  I have never tried to avoid paying my bills.
Kempner: If, however, what you call the pursuit of knowledge results in the murder of millions of people?
Schmitt: Christianity also resulted in the murder of millions of people.  One does not know unless one has experienced it oneself.  I by no means feel, as do many others, an innocent victim to whom something horrible has happened.
Kempner: But this is no comparison.  And is it not, simply stated, a criminal investigation of your personal make-up?
Schmitt: I can tell you a great deal about that.  If I were asked, I would be glad to express my honest opinion.
Kempner: I would like to ask you something without touching on your own matters.  Let us for a moment consider a case from another area.  You are familiar with Mr. Lammers and, as a constitutional lawyer, his position.  You know what a Reich Minister is?
Schmitt: Personally, I have only seen him once, in 1936.  He was Chief of the Reich Chancellery, where everything was concentrated.
Kempner: How do you explain psychologically that a man like Lammers, as an old professional civil servant, signed hundreds of horrible things?
Schmitt: I do not understand that.  I have not done that.
Kempner: That does not relate to you, you avoided such things?  How do you explain that a diplomat like von Weizsacker, as a state secretary, signed hundreds of such things?
Schmitt: I would like to give you a nice answer.  The question has great significance, a distinguished man like von Weizsacker… Only I must protect myself…
Kempner: This theme could get us into constitutional matters.  At present, I am not questioning you about Lammers personally, but about the position of Chief of the Reich Chancellery in a totalitarian state.  I am asking you neither as a defendent nor as someone accused or as a witness, but as a constitutional lawyer.  I am asking you here purely as an expert, why this position is more important than that of another Reich Minister?
Schmitt: Perhaps Bormann was more important.
Kempner: That is not completely correct.  The position of Bormann first became important in 41-42.
Schmitt: I would like to formulate this for you as best as possible in writing.
Kempner: In the Bismarckian Reich I would have stated: Lammers had the key to lawmaking in his hand.  In the dictatorship he had more in his hand: the handle to the door of the dictator.  Does this explain the significance of his position?
Schmitt: Yes.
Kempner: Write that up in a small essay.

(3)
Kempner: How are you, Professor Schmitt?  Have you written something?
Schmitt: Yes.  I have brought along both written elaborations and have signed them.  I no longer recall the exact wording of your question: “Did you participate in the preparation of wars of aggression, etc.”
Kempner: Do you pledge the accuracy of your statements on your word of honour?
Schmitt: On my word of honour I pledge the accuracy of the statements from pages 1-17.  That is a written elaboration, a legal opinion.
Kempner: Please write at the end of your elaboration: I pledge that I have given the above legal opinion according to the best of my knowledge and conscience.
Schmitt: Yes.  The legal opinion is on pages 1-15.
Kempner: I will examine this very closely.
Schmitt: I am happy to have found a reader once again.  In general, my writings have been read very poorly.  I fear the superficial reader.
Kempner: I will read through it not only form the standpoint of criminal law, but also from the standpoint of constitutional law.
Schmitt: I have written it with great interest.  Can it be indicated that I did not do that on my own initiative?
Kempner: Professor Carl Schmitt made the assessment of the constitutional position of the Reich minister and chief of the Reich chancellery at the instigation of the interrogator.  Are you afraid of doing that on your own initiative?
Schmitt: Not that.  Maybe it is improper in my circumstances.
Kempner: Prof. Carl Schmitt submits, in addition, his own comments on the subject of participating in wars of aggression.  Were you a member of the SS?
Schmitt: No.
Kempner: To what extent did you participate in the ideological preparation of SS ideology?
Schmitt: Not at all.  I was an opponent of the SS.  I was publicly assaulted and defamed in Das Schwarze Korps.
Kempner: Do you know Gottlob Berger?
Schmitt: I have never seen him.
Kempner: Were you not the idol of SS professors such as Boehm, etc.?
Schmitt: When a state concillor in a totalitarian system is publicly spat at by the Schwarze Korps, that cannot be said.
Kempner: After you were spat at, did you not travel to Salamanca, Paris, Madrid, etc.?
Schmitt: That occurred in 1943 on special invitation from the faculties.
Kempner: You had nothing to do with the SS?
Schmitt: I was strongly opposed to it.  I was secretly observed and controlled by the SS.
Kempner: Did you state that German legislation and the German administration of justice must be carried out in the spirit of National Socialism?  Yes or no?  Did you state that between 1933 and 1936?
Schmitt: Yes.  I was from 1935 to 1936 head of the professional organization.  I felt superior at that time.  I wanted to give the term National Socialism my own meaning.
Kempner: Hitler had a National Socialism and you had a National Socialism.
Schmitt: I felt superior.
Kempner: You felt superior to Adolf Hitler?
Schmitt: Intellectually, of course.  He was to me so uninteresting that I do not want to talk about that at all.
Kempner: When did you renounce the devil?
Schmitt: 1936.
Kempner: Are you not ashamed to have written these kinds of things at that time, such as, for example, that the administration of justice should be National Socialist.
Schmitt: I wrote that in 1933.
Kempner: Do you deserve good or poor grades for that?
Schmitt: It was a thesis.  The National Socialist League of German Jurists extracted it, so to speak, from my mouth.  At that time there was a dictatorship with which I was not yet familiar.
Kempner: You were not familiar with any dictatorship.
Schmitt: No.  This total dictatorship was actually something new.  Hitler’s method was new.  There was only one parallel, Lenin’s Bolshevik dictatorship.
Kempner: Was that something new?
Schmitt: Yes, certainly.
Kempner: In your own library you have writings about totalitarian dictatorship.
Schmitt: Not totalitarian.
Kempner: Are you not ashamed that you wrote these kinds of things at that time?
Schmitt: Today, of course.  I do not consider it appropriate to continue to rummage around in the disgrace we suffered at that time.
Kempner: I do not want to rummage around.
Schmitt: Without question, it was unspeakable.  There are no words to describe it.
Kempner: I consider it better if we converse about such matters outside, not here in custody.
Schmitt: That would be agreeable to me for reasons of health.  I also consider it better in the interest of the case.  This professional opinion suffers from this situation.
Kempner: I want to see that you return home.
Schmitt: My wife gave up the apartment in Berlin.  We have no other lodging than with my sisters in Westphalia.  Could you see that I go there and not automatically be sent to Berlin?
Kempner: That will be taken care of today.
Schmitt: I would appreciate it.

lundi, 26 avril 2010

25 anos después: pensar a Carl Schmitt como método

El varón consumado, sabio en dichos, cuerdo en hechos,
es admitido y aun deseado del singular comercio de los discretos.

Baltasar Gracián, Oráculo manual y arte de la prudencia, 6, 1647

25 años después: pensar a Carl Schmitt como método

Giovanni B. Krähe / http://geviert.wordpress.com/

A modo de introducción

schmittlivreflamm.jpgHoy se cumplen 25 años de la muerte de Carl Schmitt. ¿Qué se puede decir sobre el interés por Schmitt a 25 años de su muerte? Compartimos algunas reflexiones “prácticas” para un “buen” uso de la obra del jurista, de manera que siga resistiendo al tiempo como lo ha hecho hasta ahora.

Todo lector interesado en conocer las implicaciones prácticas del pensamiento schmittiano sabe que debe abandonar, en primer lugar, la mera lectura en perspectiva histórica de la obra del jurista (ese Schmitt “de Weimar”). Esta lectura histórica debe ser siempre preliminar y necesaria, por lo mismo debe saber que se limita a un esfuerzo interpretativo-descriptivo que no irá más allá de la narración de eventos del pasado. Se trata de una estrategia  hermenéutica que, si no es hábil en organizar y ponderar bien su recursos heurísticos, su propia pregunta, su análisis final, termina entonces simplemente en un docto anacronismo. En segundo lugar, para recuperar un Schmitt más práctico y actual, referido al presente que nos ocupa, digámoslo así, se debe abandonar también la lectura monotemática y  circular de las obras de Schmitt: se trata de esa lectura trivial (porque retórica, vieja y no sustancial) de ese Schmitt “de la dictadura”, el Schmitt teórico “de la excepción” y demás combinaciones con la primera perspectiva mencionada.

Leer a Carl Schmitt o a autores alemanes afines (Heidegger por ejemplo), significa dejar ese vicioso prurito bibliófilo de los temas intelectuales favoritos de café. Significa, en otras palabras, abandonar ese mito inmóvil, porque completamente incapacitante (la metáfora es de Tarchi-Benoist), alrededor del pensamiento “reaccionario”. Se trata de esa adolescente hagiografía “tradicional” de pensadores conservadores, “monárquicos”, todos seguidores de reyes muertos sin nombre ni espada. ¿Para qué es necesario superar este voluntario mito incapacitante?Para pretender una clara y robusta perspectiva realista de método y aplicación, de programa político si se quiere, donde la mirada hacia el pasado se convierte siempre en la justa medida de algo que será aplicado en el presente puntual. Este es, después de todo, el significado del pensamiento conservador: un pensamiento completamente arrojado en el presente fáctico.

Frente a esta necesidad, todo lo bueno que las dos perspectivas mencionadas sobre Schmitt (la histórica y la monotemática) pueden aún darnos sobre la vida, la obra y el pensamiento del autor a 25 años de su muerte, se demuestra como un ejercicio preliminar que debe dirigirse hacia el método, hacia el método schmittiano. Si conocemos el método, podemos prescindir completamente del autor-Schmitt, de cualquier autor (y purgarnos de nuestro vicio bibliófilo de paso). Podemos liberarnos de los temas intelectuales recurrentes y dialogar con el autor frente a frente a partir de la pregunta que nos plantea. Una pregunta  que puede mantenerse válida más allá de su autor. Este es el verdadero significado de estos 25 años para nosotros. Se reflexione bien que no se trata de una metáfora hermenéutica al estilo de cualquier otro manierismo postmoderno. Para lograr este objetivo práctico-aplicativo de la obra del jurista, en este post intentaremos una lectura de la Teología política como método. Esto quiere decir que no nos limitaremos a la enésima exégesis del libro (que ya hay muchas buenas). Este ejercicio partirá más bien desde el libro como instrumento y como medio, no como fin.

El método de la politische Theologie: la analogía

El método que denominaremos método político-teológico es desarrollado por Schmitt en el tercer capítulo de su Politische Theologie I (de ahora en adelante abreviado con PT I). Un ejemplo aplicativo de este método se encuentra en el texto de Schmitt sobre Donoso cortés. Para poder colocar el método que vamos a presentar sumariamente, es necesaria la lectura de los dos textos mencionados.

El principio a la base del método político-teológico que Schmitt nos presenta en el tercer capítulo de su PT I parte preliminarmente del principio jurídico de la analogía. Como sabemos, la analogía ocupa un lugar preciso en la doctrina jurídica. La analogía “atribuye a un caso o a una materia que no encuentra una reglamentación expresa en el ordenamiento jurídico, la misma disciplina prevista por el legislador para un caso y para una materia similar” (Bobbio). El objetivo es evitar la la laguna, el “vacío” del derecho en un caso no previsto. La analogía adquiere evidencia y aplicabilidad únicamente en el ámbito de la ratio juris. Con esto queremos decir que la analogía jurídica no va entendida en los términos filosóficos de la analogia entis, o según la perspectiva lingüistico-cultural de la analogía lógico-semántica. La analogía en Schmitt va entendida preliminarmente en términos lógico-jurídicos, (recht-logisch). Si queremos hacernos una idea de este tipo de analogía lógico-jurídica, deberemos pensar en sus ámbitos aplicativos y los límites de la misma, por ejemplo en el caso de la analogia legis (ampliación del alcance de una norma o parte de ella) o la misma analogía juris (aplicación de toda la norma a un caso no previsto. Este tipo de analogía generalmente está prohibido en el derecho penal por ejemplo). El ámbito aplicativo de este tipo de analogía lógico-jurídica que Schmitt utiliza en su método, prescribe un determinado ámbito de validez y un vínculo material inmediato que incluye en su interior a la analogía lógico-semántica. Tengamos en mente esto último. Observaremos a continuación cómo Schmitt aplica el principio de la analogía a su teología política.

Analogía jurídica e isomorfismo material político-teológico: la estructura esférica

La analogía jurídica presupone la unidad y la coherencia del orden jurídico. Aquella no cubre una “laguna” o un “vacío” en sentido general o dogmático (de lo contrario el orden jurídico no sería unitario y coherente), más bien aplica técnicamente una determinada norma a dos hechos A y B (Sachverhalt) que son plausibles de comparación en su aspecto material (Sachzusammenhang). La similitud o la diferencia entre los dos hechos sigue un criterio (el tertium comparationis) que no se basa en la relación meramente lógica entre los dos supuestos materiales. El caso (Sachverhalt) al cual debemos aplicar la analogía, no representa un vacío para el sistema en sentido estricto, sino un hecho (Tatbestand) que exige una extensión o aplicación analógico-jurídica.

¿Para qué nos sirve comprender la analogía jurídica? para lo siguiente: la analogía político-teológica de Schmitt presupone una unidad coherente entre un orden político-jurídico y un orden político-religioso cualquiera, más allá de la formas históricas que ambos  órdenes posean: se trata de una unidad entre un vínculo material y un vínculo espiritual, un vínculo que adquiere únicamente diferentes formas históricas en el tiempo. No se trata de una unidad “ontológico-metafísica”, o una nueva “filosofía de la historia”, puesto que el vínculo de esta unidad material-espiritual está permanentemente expuesto a la contingencia. Se trata, en la teoría schmittiana, de la figura del enemigo y del caso excepcional (ver más adelante). Es precisamente esta componente de permanente y contingente apertura de la mencionada unidad hacia lo impredecible (en sentido realista), hacia aquello que puede poner en juego su integridad, lo que permite ver dicha unidad material-espiritual de ambos órdenes como una identidad, una identidad ontológico-política.

Para ver esta unidad con más claridad, Schmitt  primero radicaliza ideal-típicamente (en el sentido de llevar a la raíz) la  componente material de los conceptos jurídicos, con el objetivo de mostrarnos el fundamento político-decisorio “detrás” de ellos en el tiempo. Según Schmitt, este nexo entre la analogía y su vínculo político-decisorio se puede observar si analizamos con atención, en el tiempo, la formas últimas de los conceptos jurídicos, es decir,  la relación entre el vínculo político-material que introduce una norma y el vínculo ideo-lógico que la vuelve legitima en el tiempo como orden social precisamente.

Se trata de un método hermenéutico ideal-típico que puede aplicarse a cualquier periodo histórico y que ha sido desarrollado con éxito (por el lado histórico-semántico) por un alumno de Schmitt, Reinhart Koselleck.  En el fondo se puede notar un concepto muy peculiar de ideo-logía, de análisis ideo-lógico. Se trata de un análisis que no es marxista, si vemos bien (pre-marxista más bien): entre dos hechos A y B, como en el caso de la analogía ordinaria mencionada, la analogía schmittiana no observa dos ordenamientos que se relacionan causalmente (una estructura económica y una superestructura “cultural”, digamos ilustrativamente), sino dos “estructuras” instituidas, dos concretos status quo A y B, uno material y el otro espiritual (no sólo cultural), que se relacionan isomorficamente y se conservan en el tiempo a través del permanente superamiento del vacío de la excepción y la exclusión del enemigo (Katechon). Contingencia, isomorfismo y mantenimiento entonces, o en los términos de Niklas Luhmann si se quiere: variación, selección, estabilidad (1). Veamos un ejemplo gráfico para poder ser más claros. El gráfico se refiere al tercer capítulo de la PT I (material interno del Geviert-Kreis):


Del cristal de Hobbes a la esferas de Schmitt

Podemos observar dos esferas unidas horizontalmente por un vínculo de identidad analógico entre ellas (analogische Identitat). El vínculo es horizontalmente analógico porque determina dos identidades homogéneas cada una con el propio fundamento institutivo, ordenador. En el ejemplo, se pueden ver dos realidades espirituales: la axiomática, referida a la lógica clásica, fundamento de la epistemología moderna (Axiomatik), y el dogma cristiano. Se note que, desde el método Schmittiano, ambas realidades son complementarias (tarea para los que creen todavía weltanschaulich en la separación entre religión y ciencia). Pero observemos primero la relación externa a las esferas. Podemos notar que este vínculo horizontal de identidad analógica está fundado en un vínculo material vertical que es la existencia política concreta (konkret-politisches Dasein). Se note que el vínculo material es exterior a las esferas. Esta existencia es concreta porque se basa en una decisión (Entscheidung) a partir de un espacio territorial determinado (Erde). El momento decisorio (Entscheidung) tiene  una función axial precisa que permite la re-producción permanente de la decisiones colectivas vinculantes erga omnes en el tiempo, ya sea verticalmente como re-presentación política (Repraesentation), que horizontalmente como autoridad (politisches Symbole). A esta dinámica virtuosa se añade la legitimidad, que es legitimidad procedural, técnica (Technik). Esta triple dinámica alrededor del eje decisorio, entre el símbolo político, la técnica y la representación política (ver rectángulo inferior),  está a la base misma del vínculo de identidad analógico entre las dos esferas superiores (ver flecha central). Se note ahora a la izquierda, completamente externo a la triple dinámica axial,  al enemigo (Feind). El enemigo es el posesor del poder contingente, aquel que determina esta triple dinámica decisoria en su estricto y unívoco sentido político-ontológico: el enemigo determina, desde la contingencia, la existencia misma de toda la relación dinámica mencionada, convirtiendo el vínculo analógico identitario entre las esferas, en un vínculo político-ontológico concreto. Veamos ahora la relación isomórfica, esférica, que se crea a partir de este vínculo político-ontológico.

Observemos ahora el interior de las esferas. Un determinado orden histórico-político o status quo (por ejemplo la monarquía o la liberal-democracia) determina siempre, como fundamento de su mantenimiento en el tiempo, un isomorfismo entre un aspecto material y un aspecto espiritual. Esto quiere decir que un determinado status quo político-social (la monarquía, la democracia liberal) y un orden metafísico-teológico (Dios en la monarquía; el individuo o sujeto abstracto en el deismo liberal neo-humanista respectivamente) se fundan entre sí especularmente de manera autológica y autoreferencial (Spiegelindetitat). Se trata de dos realidades concretas en relación isomórfica en dos momentos históricos diferentes, no se da una “base” o “estructura” y una “sobre”estructura entre ambos. Se note además que estamos al interior de la esfera: tanto el lado material (el ordenamiento político-jurídico, material, la juristische Gestaltung)  como el espiritual (los conceptos y categorías jurídico-teológicas, die lezte jur. Begrifffe) son relacionalmente lo mismo finalmente. Estamos lejos de cualquier “teoría del reflejo” o concepto de ideología marxista. Estamos mucho más cerca, sin duda, de los primeros idéologues franceses (destutt de Tracy), que veían un nexo orgánico y concreto entre las ideas, los contenidos ideacionales y un determinado orden político-social. Justamente por este nexo orgánico entre lo espiritual y lo material, pensamos que la representación adecuada para esta lectura de Schmitt sea una esfera.

Resumiendo: 1) dos esferas o identidades espirituales perfectamente isomórficas (geistliche Identität 1 y 2). En nuestra interpretación, una de ellas se funda (Grund), por ejemplo, en el dogma y la otra en la axiomática lógico-racional clásica (Aristóteles, Descartes). 2) al interior de cada esfera espiritual encontramos un principio de identidad y causa estrictamente especular (Spiegelindentität) entre dos concepciones, aparentemente distintas. Se trata de esa aparente dualidad completamente moderna, por lo tanto espuria, entre una “esfera material” y una “esfera espiritual” que  se fundan y se auto-legitiman en la negación de la otra y viceversa. En el esquema vemos los ejemplos que introduce Schmitt, es decir, la realidad histórico-política con su “base” económico-social (la “estructura” marxiana) y su respectiva “sobreestructura” ideológica. La lucha aquí es aparente. 3) Tales analogías de caracter autoreferente y autológico se representan recursivamente y permanentemente en la historia al interior de cada esfera, cuyo isomorfismo fundamental (dogma religioso y lógica clásica) es inmóvil. La inmovilidad no se funda en un principio abstracto, sino en la forma precisa de una causa agente que modifica o introduce tal estado, en nuestro caso, la decisión (Entscheidung). La representación del acto decisorio se da en un lugar preciso, su ordenamiento (la tierra, die Erde). Instrumentos de este orden son la técnica y el simbolismo político-religioso (la  re-presentación). La decisión determina el equilibrio isomórfico entre las dos esferas. Este es el tertium comparationis de Schmitt entre un momento histórico y el otro, lo que le permite observar similitudes y diferencias en dos momentos históricos: la decisión. El ámbito de la decisión es el ámbito de la existencia concreta, que es ortogonal a las dos esferas y siempre expuesto al enemigo.

En otro post veremos más de cerca un ejemplo concreto a partir del mencionado texto sobre Donoso.

Nota

(1) Ver Gesellschaft der Gesellschaft de N. Luhmann.  Como en el caso de la teoría luhmaniana, se notará una implícita perspectiva neo-evolucionista detrás de este método schmittiano, muy afín al actual análisis de la evolucionary economics (pero que Schmitt extiende originalmente al campo de los contenidos ideacionales (Mannheim), en sentido  ideo-lógico no-marxista) y la teoría político-institucional de la Path dependence.

Jakob Wilhelm Hauer (1881-1962)

Hauer.jpgJakob Wilhelm Hauer (1881-1962): le philosophe de la rénovation religieuse

 

La trajectoire de Jakob Wilhelm Hauer est peut-être la plus étonnante en ce siècle de bouleversements et d'horreurs guerrières, de bagarres idéologiques et d'aplatissement culturel. Né dans un milieu pié­tiste à Ditzingen-Bompelhof en Souabe, dans une famille de paysans et d'artisans jadis émigrés d'Autriche vers la Forêt Noire, au temps où la monarchie des Habsbourg tolérait mal les protestants dans ses états. La famille Hauer est très pauvre, la vie est dure et tragique à Ditzingen: deux jeunes sœurs meurent le même jour lors d'une épidémie de scarlatine; Jakob Wilhelm, fort affaibli, survit. Dès son jeune âge, il doit aider son père à gagner maigrement sa vie. Mais cette rude expérience, cette jeu­nesse triste, lui livre un trésor incomparable: il expérimente et intériorise la solidarité entre les membres d'une communauté de sang. Jamais ce sens de la solidarité n'a fléchi chez lui. Cet exemple familial est à la base du principal concept que Hauer théorisera, avec son ami Martin Buber:  Das Gemeinsame, la communauté. Devant les cadavres de leurs deux petites fillettes, les parents de Hauer avaient formulé un vœu: si le garçon survit, il devra être au service de Dieu. Dieu a exaucé le malheu­reux couple: Hauer, en dépit de toutes les difficultés matérielles, deviendra pasteur et missionnaire; il fréquentera le lointain Gymnasium  et il étudiera la théologie, avec l'aide du pasteur de Ditzingen, qui lui donne des cours particuliers d'une telle qualité qu'en entrant à l'école des missionnaires à dix-huit ans, le jeune Hauer est plus calé que ses condisciples. En 1900, il part à pied à Bâle pour entrer au sé­minaire des missionnaires. Il y est un élève modèle, un “bûcheur” hors ligne, mais qui lit, à l'insu de ses supérieurs, des livres prohibés, “païens”: l'Edda, Goethe, Schiller, Nietzsche, la Divine Comédie  de Dante, et surtout Das Wesen des Christentums  de Harnack. Sa foi chrétienne est fort ébranlée, mais il le cache, car il a vraiment envie d'être missionnaire, de quitter l'Europe et de partir à l'aventure dans un pays lointain, exotique. On lui réserve un poste en Inde, sur la côte de Malabar. Mais auparavant, il doit connaître l'anglais. La mission lui paie un stage à Edimbourg en Ecosse.

 

Il effectuera sa première mission en Inde à Palghat, où il entre en contact avec la civilisation et la cul­ture indiennes. C'est là, au fond, que tout va basculer: Hauer ne convertira aucun Indien. C'est l'Inde qui va le convertir, qui va lui faire découvrir sa propre “indo-européanité”. Après un premier séjour là-bas, de 1908 à 1909, il étudie à Oxford de 1910 à 1915, avec juste une interruption: un séjour dans un camp de concentration anglais, réservé aux “alien ennemies”. Mais il peut retourner à l'université, avec la promesse de ne pas s'évader. C'est à Oxford que Hauer approfondit ses connaissances de l'Inde et surtout des techniques du Yoga. Ses travaux le rendent éminemment suspect aux yeux des supérieurs du séminaire des missionnaires de Bâle. La rupture avec le christianisme est irrémédiable. Elle est con­sommée en 1920, où Hauer devient Privatdozent  en histoire des religions, attaché à l'Université de Tübingen. Mais la routine de l'université l'ennuie. Il cherche à poursuivre sa vocation de missionnaire, non plus au service d'un protestantisme fortement teinté de piétisme, non plus sous des cieux exo­tiques, mais au profit d'une vision religieuse ancrée dans la nature, dans les paysages, axée sur la cha­rité communautaire, sur l'esprit de solidarité avec les siens, sur l'ascèse et la discipline intérieure qu'enseigne le Yoga indien, et, enfin, sur ce sentiment, encore diffus chez lui, d'une fibre religieuse commune à tous les Indo-Européens, de l'Islande au Gange. Pour enseigner cette vision religieuse sur­plombant tout ce qui est établi, bousculant toutes les conventions universitaires, il faut un terrain vierge. Et qu'offre l'Allemagne d'après 1918 comme “terrain vierge”, sinon les mouvements de jeu­nesse alternatifs, issus du Wandervogel d'avant 1914? Il fréquentera d'abord le groupe Die Neuen, animé par un pasteur, Rudolf Daur, qui commence, lui aussi, à s'émanciper des dogmes chrétiens, puis fonde une véritable école alternative, organisée sur le modèle des ligues de jeunesse: le Bund der Köngener,  dont il devient automatiquement le premier “chancelier”.

 

Ce Bund der Köngener  est trop peu connu; pourtant, il fut le théâtre de débats inimaginables au­jourd'hui, où tout est contingenté, politisé, dogmatisé, hyper-simplifié et médiatisé. Les tenants des idéologies ou des confessions les plus diverses et, apparemment, les plus contradictoires, ont pris la pa­role à cette tribune alternative, y ont confronté leurs points de vue et ceux qui avaient vraiment abjuré toute forme de dogmatisme stérilisant y ont enrichi leur bagage religieux, théologique ou philoso­phique. Le Bund der Köngener  est sans nul doute le meilleur exemple d'anti-dogmatisme en ce siècle où des millions d'hommes se sont écharpés pour ne pas s'être écoutés. Martin Buber y a présenté son humanisme et son “enracinement” juifs, de même qu'une vision du Reich (allemand) reposant sur les traditions juives, où le peuple serait éduqué et discipliné dans son intériorité et non pas par le truche­ment d'un appareil d'Etat coercitif; Karl Otto Paetel, rédacteur du Manifeste national-bolchevique, qui partira s'engager dans les Brigades Internationales et connaîtra l'exil à New York après la défaite de l'Espagne républicaine, y a défendu son idéal du paysan-soldat; Ernst Krieck, le pédagogue allemand, membre de la NSDAP et grand pourfendeur de Heidegger, y a pris la parole; des communistes, des protestants, des catholiques y ont dialogué. Mais les passions politiques faisaient rage dans cette Allemagne au bord de la guerre civile, où SA et SS étaient prêts fondre sur leurs homologues des ligues communistes et du Reichsbanner social-démocrate. Des propagandistes nazis obtus décrètent que le Bund der Köngener est “enjuivé” par la présence de Buber; les chrétiens déplorent la présence de non-chrétiens; les “rouges” refusent de dialoguer avec Krieck et Bäumler (spécialiste du matriarcat de Bachofen, de Nietzsche et du “romantisme tellurique”; membre de la NSDAP); etc. Hauer et Buber ten­tent de maintenir la sérénité du débat, y parviennent, mais réduisent automatiquement le nombre de participants et ne bénéficient plus d'aucune publicité.

 

L'idéal des Köngener était de créer une sorte de solidarité interconfessionnelle entre tous ceux qui, sur la Terre, souhaitaient sauver l'essentiel des messages religieux, le sens des communautés, devant le raz-de-marée de la modernité désaxante, déracinante, individualisante. Leurs adversaires disaient d'eux qu'ils voulaient créer une “religion-esperanto”... Reproche infondé dans le sens où la qualité des interventions et des intervenants éloignait leurs démarches de tout affadissement ou aplatissement de style “espérantiste”. A partir de 1933, quand le pouvoir change de mains à Berlin, le Bund der Köngener, dont le statut est celui d'un mouvement de jeunesse, change de nom et d'objectifs pour ne pas devoir se dissoudre dans les jeunesses hitlériennes. Finalement, Hauer fonde la Deutsche Glaubensbewegung, à laquelle se joint toute une série d'autres associations de recherches religieuses (qui mériteraient aussi d'être analysées plus en profondeur). L'association doit faire les concessions d'usage au nouveau parti totalitaire pour pouvoir continuer à exister en toute indépendance. Hauer et ses amis souhaitent surtout que les recherches religieuses demeurent indépendantes, n'aient pas à s'aligner sur les diktats d'un parti ou à s'inféoder à une église ou à un “christianisme germanique”. En 1935, Hauer et le Comte Ernst zu Reventlow remplissent le Palais des Sports de Berlin, pour parler de religion et de métaphysique! La puissance de ce mouvement patriotique mais alternatif, de ces tenants d'une révolution intérieure (Buber!), devient suspecte. Les attaques ne cessent plus: c'est dans le parti et non pas dans une “association extérieure” qu'on réalisera la révolution (même la révolution intérieure); on interdit aux membres de la jeunesse hitlérienne de faire partie de la DGB; finalement, Heydrich en devient membre pour mieux la contrôler. La présence du chef de la police fait perdre au mouvement tout son aura. Hauer est contraint d'adhérer aux différentes instances du parti, afin de conserver ses chaires. Buber se réfugie en Palestine. Mais les modestes nominations de Hauer le compromettront après 1945. L'indéfectible amitié de Martin Buber, émigré en Palestine en 1938 après la “Nuit de Cristal”, le tirera d'affaire. Et la grande aventure de ces deux formidables complices pourra continuer jusqu'à la mort de Hauer en 1962. Les associations qu'ils ont fondées ou patronnées dans les années 50 continuent de travailler aujourd'hui.

 

Les années 30 sont aussi l'occasion pour Hauer d'approfondir ses connaissances de la religiosité in­dienne, de développer sa critique des dogmatismes, de réfléchir sur la métaphysique indo-aryenne du combat et de l'action, de poursuivire une quête mystique germanique en tentant, à la suite de Maître Eckart, de dégager une vision thioise du divin et de la foi (dont un texte paraîtra en français en 1935: «Le mouvement de la foi germanique», in Revue des vivants. Organe de la génération de la Guerre, IX, 1935, pp. 1491-1504). Parallèlement à cette triple recherche, Hauer tente une réflexion en profondeur sur les assises physiques et somatiques des religiosités enracinées et sur les questions impassables de la mort et de l'immortalité. En 1937, paraît un livre qui reprend l'essentiel de ses recherches en indologie, Glaubensgeschichte der Indogermanen. Dans la préface à cette anthologie, Hauer insiste sur le carac­tère nécessairement “proche de la vie” et “ancré dans un peuple précis” de toute religiosité vraie, du­rable et authentique. Il y livre aussi, de façon très concise, ses méthodes de recherche et ses conclu­sions. Notamment la différence entre foi (Glaube)  et religion (Religion).  «Par “religion”, j'entends le monde des formes religieuses, qui, en tant que partie de la culture globale d'un peuple, est soumis aux lois du devenir et de la disparition. La foi, en revanche, est l'expérience originelle de la réalité ultime et le domaine des forces intérieures, vivantes dans les tréfonds de l'âme des peuples et des races. C'est de l'interaction de ces forces que nait le monde des formes religieuses. Celles-ci sont symboles, indices, de ce domaine de l'intériorité. Voilà pourquoi on ne peut pas écrire d'histoire de la foi sans d'abord écrire une histoire de la religion. Les faits relevant de l'histoire de la religion doivent nous guider, de façon à ce que nous puissions aller à la rencontre de cette vie intérieure et que nous puissions en saisir le sens, créativement. Ainsi jaillira la connaissance sur base de laquelle nous pourrons oser une histoire de la foi. Mais nous ne serons saisis par ce sens que si ce sens est apparenté à notre propre essence».

 

La religiosité indo-européenne est une religiosité de l'action, notamment de l'action guerrière. Pendant toute sa vie, Hauer s'est insurgé contre un a priori sur le Yoga, considéré comme un exercice purement contemplatif. A priori évidemment faux, car, écrit-il dans la préface de Glaubensgeschichte der Indogermanen, une forme particulière du Yoga, dans la tradition zen du bouddhisme japonais, est le pilier porteur d'une noblesse guerrière, les Samouraïs, qui ont fait l'Empire nippon. «Ma conviction est qu'il est impossible de comprendre la civilisation indo-aryenne sans comprendre le Yoga, tout comme il est impossible de comprendre l'hellenité en excluant l'orphisme ou le platonisme, ou de comprendre la germanité, si on ôte la mystique de son patrimoine (ici, j'entends “mystique” au sens totalement posi­tif de “voie vers l'intériorité”. Sans cette voie vers l'intériorité, dans quelque forme que ce soit, il n'y a pas d'indo-européanité, ni même de germanité). L'homme indo-européen déploie certes une puissance d'action hors mesure et fait montre d'une volonté indomptée d'agir sur le monde; mais il sent instincti­vement qu'il court un grand danger, si cet agir sur le monde extérieur n'est pas compensé par un re­tour aux tréfonds de l'âme et un rassemblement des forces qui y résident, pour les opposer ensuite au monde extérieur. La religiosité indo-européenne tourne donc autour de deux pôles: d'une part, une pulsion qui la conduit à plonger dans les tréfonds de l'âme pour y découvrir ses lois et, d'autre part, une foi active en Dieu et dans le destin, impliquant un sens très austère et très sérieux de sa responsabilité dans le monde. Dans la tension qui résulte de cette opposition, jaillit la formidable dynamique de l'histoire de la foi indo-européenne, cette dynamique qui lui donne son élan constant».

 

En conséquence, la tradition indienne et le yoga ne peuvent pas être considérés comme des fuites hors du monde: «... Au contraire, c'est ici une joie d'être dans le monde qui est à l'œuvre, un sens d'être abrité dans le monde (Weltgeborgenheit) qui donne le ton». Le monde n'est donc pas dépourvu d'essence (divine), il n'est pas opposé à Dieu ou aux dieux (gottwidrig). Il n'est pas nié au profit d'un espoir de voir advenir un monde “tout-autre”, parfait, où le tragique n'aurait plus sa place. Au contraire, le monde et ses conditions, ses tragédies et ses deuils, est accepté comme tel et opposé à une intériorité inconditionnée, qui est présente dans le monde, qui peut arraisonner ce monde, que les esprits les plus lucides et les plus clairvoyants ont la faculté de saisir.

 

Revenons aux événements du XXième siècle. La tension qui a existé entre les autorités du Troisième Reich et la Deutsche Glaubensbewegung  est indéniable. Mais en 1945, qu'est-ce qui a incité les autori­tés anglo-saxonnes à ostraciser Hauer, à le suspecter de collaboration avec le régime, au-delà des titres honorifiques ou autres que lui avaient octroyés des fonctionnaires zélés et propagandistes? La dernière activité de Hauer pendant la guerre a été de mettre sur pied un “Institut Indien” à l'Université de Tübingen. Pour mener cette tâche à bien, il collabore avec le leader des indépendantistes indiens, Subha Chandra Bose, allié de l'Axe et des Japonais, pour qui il recrute des troupes. Ni les Américains ni les Anglais ne peuvent avaliser cette politique, qui aurait pu sérieusement ébranler la puissance des Anglo-Saxons pendant le conflit et qui a jeté les premières bases de l'indépendance indienne de 1947. Hauer paiera cher cette collaboration somme toute bien innocente avec Subha Chandra Bose. Il est ar­rêté le 3 mai 1945 et interné dans un camp de concentration allié. En 1947, il est relâché. Très vite, il remonte son institut indépendant d'études religieuses, qui devient l'Arbeitsgemeinschaft für freie Religionsforschungen und Philosophie. Plus tard, en 1957, avec les Prof. Heller, Brachmann et Berger, Hauer participe à la création de la Freie Akademie. Il en restera le président jusqu'à sa mort. La Freie Akademie poursuit toujours ses travaux aujourd'hui.

 

A partir de 1950, dans une ambiance plus sereine, sans arrière-fond de guerre civile, Hauer poursuit ses travaux et élargit l'éventail de ses préoccupations: réflexions sur la crise religieuse contemporaine, notion de destin, mythes et cultes des peuples primitifs, religiosité de l'“homme occidental”, réflexions sur la tolérance, étude sur le matriarcat, etc. Il meurt le 18 février 1962.

 

Trois grandes leçons doivent être tirées de l'œuvre de Hauer. D'abord, c'est toujours ce fameux “facteur X”, soit la “réalité intérieure”, qui détermine la vie religieuse et l'histoire de chaque peuple. Ce “facteur X” peut se retirer du monde, replonger dans les tréfonds de l'âme, pour revenir fortifié et agir sur la trame des événements. L'Europe finira donc par retrouver sa vision tragique du monde, cette tension fructueuse entre intériorité et arraisonnement du monde. Ensuite, la notion, partagée avec Martin Buber, de “communauté”, plus exactement, Das Gemeinsame. Tous les représentants d'un même peuple partagent une variante bien précise de l'idée (platonicienne) de “communauté”. C'est leur épine dorsale religieuse et historique. Sans cette notion, un peuple dépérit. Mais comment empê­cher ce sentiment de la communauté d'être étouffé par l'idéologie dominante, rationaliste, matérialiste et individualiste? Par la tolérance. Et la tolérance selon Hauer et Buber est la troisième grande leçon que nous devons retenir. La tolérance, ce n'est pas tout accepter indistinctement, c'est au contraire se hisser largement au-dessus des opinions idéologiques conventionnelles, pharisiennes et mesquines. De ce fait, la tolérance selon Hauer n'est pas un facteur de dissolution, mais un principe qui permet de dé­gager l'essentiel et d'unir les hommes sur la base de cet essentiel et, ainsi, de mettre un terme à des que­relles stériles, comme celles qui ont ensanglanté ce XXième siècle. Cette tolérance-là il faut la graver dans son cœur et dans son cerveau. Pour rester fidèle aux deux seuls hommes qui ont su rester haut au-dessus de la mêlée: Hauer et Buber.

 

Detlev BAUMANN.

SOURCE: Margarete DIERKS, Jakob Wilhelm Hauer (1881-1962). Leben. Werk. Wirkung, Verlag Lambert Schneider, Heidelberg, 1986, 607 p., DM 88, ISBN 3-7953-0510-1 (Bibliographie très complète, livres, articles et recensions). Précisons que les éditions Lambert Schneider sont celles qui éditent les œuvres complètes de Martin Buber. Dans la politique éditoriale de la maison, les deux amis restent donc unis, par-delà la mort.

 

Sur la Deutsche Glaubensbewegung: Ulrich NANKO, Die Deutsche Glaubensbewegung. Eine historische und soziologische Untersuchung, Diagonal-Verlag, Marburg, 1993, 372 p., DM 39,80, ISBN 3-927165-16-6.

mardi, 13 avril 2010

Contro lo spirito di gravità

Contro lo spirito di gravità

di Adriano Scianca

   

“Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini avrà spostato tutte le pietre di confine”

Friedrich Nietzsche

Così parlò Zarathustra, III, “Dello spirito di gravità”

 

frohliche_wissenschaft.jpgVivere è sempre scegliersi dei modelli: esempi che incarnino ciò che vogliamo essere e che ci indichino la rotta. Il nostro modello è da sempre l’ardito. In questa scelta c’è certamente la gratitudine e l’ammirazione verso persone in carne ed ossa che, nella Grande Guerra e nel periodo immediatamente successivo, hanno dato anima e corpo alla Nazione. Ma c’è anche e soprattutto la percezione nitida che c’è qualcosa, nella mentalità ardita, che ancora oggi ci parla, che si innalza sopra le contingenze, che illustra un metodo e uno stile ancora oggi attualissimo.

 

L’ardito, infatti, è un volontario, uno che combatte per fede e non per costrizione. E’ l’uomo che avanza, che si stacca dal gregge e fa un passo avanti donando se stesso. Egli fa della creatività in battaglia e del coraggio le sue armi predilette. Il suo compito è essere avanguardia, entrare lì dove nessuno è mai entrato, inoltrarsi nel territorio nemico. Creare vie, tracciare percorsi, sfondare le linee nemiche. Andare avanti nella boscaglia e creare un passaggio laddove altre truppe successive creeranno strade e accampamenti. Per fare questo, l’ardito deve muoversi con libertà. Per questo gli si concede l’armamento leggero, privo dei fardelli che ostacolano l’avanzata. L’ardito non ha zavorre, per questo può inerpicarsi verso territori sconosciuti.

 

Il messaggio è chiaro: per creare, avanzare, conquistare occorre liberarsi dei fardelli. Fardelli che oggi sono innanzitutto zavorre mentali che inibiscono il corretto procedere. Vediamone alcune.

 

Zavorra numero uno: l’agorafobia. Ovvero la paura della piazza, del “fuori”. E’ il ghetto interiorizzato, l’idea che alla fine il nostro posto nel mondo siano veramente, se non le fogne, per lo meno gli scantinati, i sottoscala, gli sgabuzzini. Posti bui e umidi, dove tuttavia è rassicurante dimorare perché in essi si evita il confronto con la realtà, lo scontro con i fatti. Ci si parla addosso e per questo ci si convince di avere argomenti invincibili senza darsi la pena di mettersi veramente alla prova. Se non che la storia si fa lì fuori. l’unico campo di battaglia che conta è il mondo.

 

Zavorra numero due: l’antagonismo. L’idea, direttamente discendente dall’agorafobia di cui sopra, per cui esistiamo noi ed esiste il mondo e fra i due schieramenti si immagina una lotta senza quartiere. In questa visione noi siamo i puri e il mondo è l’impuro. O si è “servi del sistema” o si è “contro il sistema”. Logiche vecchie, estremismo inacidito. Rileggere Foucault: il sistema è un gioco di flussi (di persone, materiali, informazioni, denaro) che va, a sua volta, giocato. Bisogna essere dentro e cavalcare l’onda. E per quanto sia importante avere propri spazi – veri o metaforici – ciò che conta è essere al centro dello spazio comune. Dominare, ad esempio, l’informazione mainstream, non fare sterile e mal verificata “controinformazione” stile anni ’90.

 

Zavorra numero tre: l’ideologia. Con questo termine designiamo ogni schema teorico che tenda a imbrigliare la realtà in gabbie rigide che ne umilino la complessità e la varietà. Di tipica filiazione monoteista, le ideologie mancano di elasticità e sono le nemiche giurate di ogni pragmatismo. Si oppone alle ideologie la “visione del mondo”, che già nella definizione conserva un qualcosa di intuitivo, di non logicizzato. La visione del mondo è il grimaldello che apre le porte del presente esattamente come l’ideologia è lo schema che le chiude. Il fascismo ebbe una visione del mondo e nessuna ideologia. Il neofascismo – costretto dalle contingenze a pensare il fascismo molto più che a viverlo – ha più spesso fatto il contrario. Magari in buona fede. Ma un’ideologia in buona fede non diventa per questo più utile. Es. urlare a ogni piè sospinto “socializzazione!” è ideologico, è una soluzione pronta buona per ragionamenti sloganistici; inverare lo spirito del Manifesto di Verona nel presente alla luce delle mutate condizioni socioeconomiche è rivoluzionario.

 

Zavorra numero quattro: il viaggio mentale. Molte deviazioni, rispetto a quello che è il nostro percorso genuino, avvengono per meccanismi mentali più o meno inconsapevoli basati su processi di rimozione o transfert. In questo modo si possono spiegare alcuni dei più frequenti sbandamenti neofascisti, dall’infatuazione per la sinistra (per cui da fascisti si diventa “fascisti di sinistra” per approdare infine alla sinistra tout court e talvolta persino all’antifascismo) fino al complesso del “beduino liberatore” (quello per cui si cerca spasmodicamente un “bastione rivoluzionario” esotico destinato a propagare la rivolta per tutto il globo, anche per conto di chi è troppo impegnato a farsi i suoi viaggi mentali per pensare da sé al suo destino).

 

Zavorra numero cinque: il monologhismo. Il monologo, si sa, è il contrario del dialogo. Chi concepisce il relazionarsi agli altri nei soli termini del monologo è entrato in un circolo vizioso completamente autoreferenziale. E lo fa perché sente come irrimediabilmente debole la sua identità. Entrando in contatto con l’altro da sé potrebbe cedere, quindi si chiude a riccio. Chi è saldo nelle proprie convinzioni e nel proprio sentimento del mondo è invece consapevole di poter discutere anche con il diavolo. Perché anche il dialogo,in realtà, è una prova di forza: chi è debole viene soggiogato, chi è forte rimane se stesso.

 

Zavorra numero sei: le idee che immobilizzano. Al di là degli atteggiamenti ci sono in effetti contenuti specifici che fungono da fardello incapacitante. Tutti i moralismi, tutti i passatismi, tutti i clericalismi, ogni idea di matrice reattiva, ogni proposta formulata in termini di “valori”, qualsiasi giudizio bacchettone privo di prospettive in positivo: tutto ciò paralizza il pensiero e l’azione. Per sconfiggere lo spirito di gravità occorre riconquistare una visione chiara, lineare di ciò che siamo. Bisogna ripulire tutte le incrostazioni, raddrizzare tutte le deviazioni, potare tutti i parassiti. Per procedere con sicurezza bisogna prima ritrovare il nord.

 

Essere di Estremocentroalto, nonostante i fraintendimenti in buona o cattiva fede, non significa semplicemente sposare una formula accattivante e ingenuamente “futurista”. Significa, invece, cominciare a ragionare in controtendenza rispetto a quanto descritto sopra. Significa allenare se stessi ad un pensiero – e ad un’azione – che non dia nulla per scontato, che rimetta in discussione i pregiudizi. Esistono meccanismi mentali che vanno spezzati. Estremocentroalto è la riconquista di uno sguardo sulla realtà sgombro da nubi. E’ come se il mondo ci apparisse per la prima volta davanti agli occhi, in una visione scintillante di potenzialità da cogliere, in estrema libertà.

 

L’ottocento è sempre più morto.

Il novecento pure.

Noi continuiamo a sentirci benissimo.

dimanche, 11 avril 2010

El liberalismo y la semilla de la destruccion

libmort.jpg

 

EL LIBERALISMO Y LA SEMILLA DE LA DESTRUCCIÓN

Ex: http://lamaldiciondespengler.blogspot.com/

"En vano proclamaréis la idea de la igualdad; esa idea no tomará cuerpo mientras la familia esté en pie. La familia es un árbol de este nombre, que en su fecundidad prodigiosa produce perpetuamente la idea nobiliaria."


JUAN DONOSO CORTÉS


"Cuando la idea de la propiedad descaece, el sentido de la familia se disuelve en nada. Quienquiera impugna la primera, ataca también a la segunda. La idea de herencia, adherida a la existencia de todo cortijo, todo taller y toda antigua firma comercial, así como a las profesiones continuadas de padres a hijos, y que ha encontrado su más alta expresión simbólica en la monarquía hereditaria, garantiza la fortaleza del instinto de raza."

OSWALD SPENGLER




Pocos intelectuales han sido tan certeros como nuestro Donoso Cortés ante la cuestión de diagnosticar -y en ocasiones profetizar- la naturaleza del tumor maligno que, ya a mediados del siglo XIX, carcomía el alma de nuestra civilización mediante la propagación de las ideas racionalistas.


Y es que Donoso, en un alarde de preclara objetividad, mostró hasta qué punto el utillaje ideológico de la escuela socialista fue extraído de la escuela liberal; la única diferencia estriba en que aquélla se atrevió a hacer explícitas las últimas consecuencias que ya anidaban, bien que de forma implícita, en los dogmas de ésta. Podríamos decir, pues, que el gran mérito del socialismo fue que llegó a ser más consecuente que su progenitor ideológico: simplemente, dio una vuelta de tuerca más a un programa liberal que, por mucho que sus acérrimos defensores lo nieguen, llevaba en su seno la semilla de la destrucción.


Conviene repasar, sin embargo, algunos de los textos que nos legó este genial escritor. En especial, ciertos capítulos publicados en su obra "Ensayo sobre el Catolicismo, el Liberalismo y el Socialismo", donde expresa con argumentos inatacables cómo la "igualdad" que preconizaban las corrientes liberales, en la que se incluía una concepción materialista e insolidaria de la sociedad, desembocaban irremediablemente en la disolución de la familia y la consiguiente expropiación económica por parte del Estado (que es, precisamente, la piedra angular de todo el andamiaje socialista). Escuchemos a Donoso:


"De aquí se deducen las siguientes consecuencias : Siendo los hombres perfectamente iguales entre sí, es una cosa absurda repartirlos en grupos, como quiera que esa manera de repartición no tiene otro fundamento sino la solidaridad de esos mismos grupos, solidaridad que viene negada por las escuelas liberales como origen perpetuo de la desigualdad entre los hombres. Siendo esto así, lo que en buena lógica procede es la disolución de la familia : de tal manera procede esta disolución del conjunto de los principios y de las teorías liberales, que sin ella aquellos principios no pueden realizarse en las asociaciones políticas."


Otros de los aspectos en los que incide Donoso es en el "giro copernicano" que el liberalismo otorgó al significado de la propiedad. Antes de la irrupción del racionalismo, el sentido de la propiedad se hallaba indisolublemente unido al símbolo familiar; de esta suerte, era la propiedad hereditaria y lo que ésta representaba quien "poseía" al titular de la misma. En cambio, con la aparición de las ideas liberales esta relación se invierte: ahora es el "individuo"- esa abstracción que tanto daño ha causado a nuestra perspectiva histórica- el que posee una propiedad que, desligada del elemento hereditario y familiar, se transforma en mera cosa. El tránsito del patrimonio raigal al dinero queda así abierto. De nuevo Donoso nos alerta de la enorme trascendencia de este cambio de mentalidad:


"Pero la supresión de la familia lleva consigo la supresión de la propiedad como consecuencia forzosa. El hombre, considerado en sí, no puede ser propietario de la tierra, y no puede serlo por una razón muy sencilla : la propiedad de una cosa no se concibe sin que haya cierta manera de proporción entre el propietario y su cosa, y entre la tierra y el hombre no hay proporción de ninguna especie. Para demostrarlo cumplidamente bastará observar que el hombre es un ser transitorio, y la tierra una cosa que nunca muere y nunca pasa. Siendo esto así, es una cosa contraria á la razón que la tierra caiga en la propiedad de los hombres, considerados individualmente. La institución de la propiedad es absurda sin la institucion de la familia (...) La tierra, cosa que nunca muere , no puede caer sino en la propiedad de una asociación religiosa ó familiar que nunca pasa. (...) La escuela liberal, que de todo tiene menos de docta, no ha comprendido jamas que siendo necesario para que la tierra sea susceptible de apropiación, que caiga en manos de quien pueda conservar su propiedad perpetuamente, la supresión de los mayorazgos y la expropiación de la Iglesia con la cláusula de que no pueda adquirir es lo mismo que condenar la propiedad con una condenación irrevocable. (...) La desamortizacion eclesiástica y' civil, proclamada por el liberalismo en tumulto, traerá consigo (...) la expropiación universal. Entonces sabrá lo que ahora ignora : que la propiedad no tiene razón de existir sino estando en manos muertas, como quiera que la tierra, perpetua de suyo, no puede ser materia de apropiación para los vivos que pasan, sino para esos muertos que siempre viven."


Ahora bien, tras conseguir el objetivo de desarraigar a los hombres, la "sociedad"-o lo que queda de ella- se convierte en un despojo compuesto por "individuos" aislados y anónimos. Así es como el siglo XX conoció la disputa, puramente económica, entre el "liberalismo" y el "socialismo", esto es, entre los "individuos" y el Estado. Y si hoy en día se sigue hablando de la victoria del liberalismo frente al estatalismo soviético tras la caída del muro de Berlín, es porque se ignora la deriva estatalista que las democracias "liberales" impulsaron, sobre todo a mediados de siglo, merced a las modernas teorías del Estado Social. De ahí la sorprendente actualidad de las proféticas conclusiones de Donoso:


"Cuando los socialistas, despues de haber negado la familia como consecuencia implícita de los principios de la escuela liberal ,- y la- facultad de adquirir en la Iglesia, principio reconocido así por los liberales como por los socialistas, niegan la propiedad como consecuencia última de todos estos principios, no hacen otra cosa sino poner término dichoso a la obra comenzada cándidamente por los doctores liberales. Por último, cuando despues de haber suprimido la propiedad individual el comunismo proclama al Estado propietario universal y absoluto de todas las tierras, aunque es evidentemente absurdo por otros conceptos , no lo es si se le considera bajo nuestro actual punto de vista. Para convencerse de ello basta considerar que, una vez consumada la disolucion de la familia en nombre de los principios de la escuela liberal , la cuestion de la propiedad viene agitándose entre los individuos y el Estado únicamente. Ahora bien: planteada la cuestion en estos términos, es una cosa puesta fuera de toda duda que los títulos del Estado son superiores á los de los individuos, como quiera que el primero es por su naturaleza perpetuo, y que los segundos no pueden perpetuarse fuera de la familia."

samedi, 10 avril 2010

Jünger, los mitos y el mar

Jünger, los mitos y el mar

Ex: http://losojossinrostro.blogspot.com/ 

Me encuentro inmerso en la lectura de “Mitos griegos”, un libro de Friedrich Georg Jünger, el hermano de Ernst, que fue editado en España el año pasado por la editorial Herder. Surcando sus páginas alcancé un pasaje realmente especial, por su extraordinaria fuerza evocadora (al menos por lo que a su humilde servidor respecta). Es precisamente eso lo que hace de ese libro algo interesante; los mitos no se presentan como reliquias del pasado, como equivalencias despojadas de poder fascinador y ambiguo (Apolo=sol, Marte=guerra) y petrificadas por el proceso alegórico. No; los mitos aquí son algo vivo, real, palpitante, pletórico de belleza y terror a partes iguales.

El pasaje está dentro del fragmento que hace referencia a dos titanes, Océano y Tetis. Océano está vinculado, como otros titanes, con los fenómenos elementales. Se relaciona con las aguas, con la corriente universal que envuelve la tierra, con un rumor fluido y pacífico –Océano es el único que no interviene en la lucha entre Crono y Urano- pero también persistente. Siempre es igual a sí mismo y, también como los otros titanes, es presa de un “eterno retorno” (hay un inconfundible eco nietzscheano en la prosa de Jünger). Tetis es su esposa, madre de las oceánides y divinidades del agua.

Pero es cuando habla de Poseidón cuando aparece este pasaje, abismado en la contemplación de las formas marinas:


circunvoluciones y curvaturas. Determinadas criaturas marinas poseen una estructura estrictamente simétrica a partir de la cual configuran formas estrelladas y radiales, imágenes en las que también el agua interactúa con su fuerza moldeadora, radial y estrellada. Otras, como las medusas, son transparentes, su cuerpo entero está bañado en luz y avivado por exquisitos tornasoles. A todo lo nacido en el agua le es propio un esmalte, un color y un brillo que sólo el agua puede conferir. Es iridiscente, fluorescente, opalino y fosforescente. La luz que penetra a través del agua se deposita sobre un fondo sólido que refleja las delicadas refracciones y los destellos de la luz. Este tipo de brillo se observa en el nácar y aún más en la perla misma. Al mar no le faltan joyas, es más, todas las alhajas están en relación con el agua, poseen también una naturaleza acuática que les confiere un poder lumínico. En él los colores son más bien fríos“El reino de Poseidón está mejor ordenado que el de Océano. Es más suntuoso y armonioso. La corriente universal que fluye poderosamente lo encierra con un cinturón, lo encierra como centro a partir del cual la entera naturaleza marítima adquiere su forma (…) Todo lo que procede del mar muestra un parentesco, tiene algo en común que no oculta su origen. Los delfines, las nereidas, los tritones, todos emergen del medio húmedo y su complexión muestra el poder del elemento del que proceden. Las escamas, las aletas, las colas de pez únicamente se forman en el agua y, por el modo en que se mueven, están en correspondencia con la resistencia de las corrientes. Algo parecido muestran las conchas y las caracolas en sus formas planas, en sus y aún así resplandecientes, y se reflejan los unos en los otros. Prevalecen el verde y el azul, oscuros y claros a través de todos los matices. Al agitarse, las aguas se tornan negras y arrojan una espuma color de plata. También allí donde asoma el rojo, o el amarillo en estado puro, el agua participa de su formación.

Al que contempla estas formas admirables y a primera vista, a menudo, tan extrañas, le recuerdan ante todo los juegos de las nereidas. Son los juegos que ellas juegan en las aguas cristalinas, en sus cuevas verdes. Al nadador, al bañista le vienen a la mente estos juegos y lo serenan. La fertilidad del mar oculta un tesoro de serenidad; por mucho que se extraiga de él, siempre permanecerá inagotable. Quien descienda a las profundidades, sentirá el cariño con el que el mar se apodera del cuerpo y lo penetra, sentirá los abrazos que reparte. De la caracola en forma de espiral hasta el cuerpo blanco y níveo de Leucótea, de la que se enamoró el tosco Polifemo cuando la miraba jugar con la espuma de la orilla, todo sigue en él la misma ley. También Afrodita Afrogeneia emergió del mar; su belleza y su encanto son un obsequio del mar.

Del ámbito de Poseidón, del reino de Poseidón depende todo esto. Todo lo que se halla bajo la tutela del tridente tiene algo en común y muestra un parentesco inconfundible, Fluye, se mueve, es luminoso, transparente, cede a la presión y ejerce presión. Se eleva y se hunde rítmicamente, y en su formación revela el ritmo que lo impregna.”

¡Cuántas imágenes ha conjurado este texto en mi imaginación! Recuerdo aquel verano en la Costa Brava, hace ya muchos años, en el que me dediqué casi exclusivamente a recoger erizos de mar entre las rocas; era como una obsesión. Trataba de encontrar algo reconocible entre ese bosquecillo de púas, hasta que finalmente pasaba el dedo por él... y las púas respondían con un parsimonioso movimiento, todas hacia un mismo punto. Probablemente estuve haciendo eso durante horas y horas; alrededor había también estrellas y caballitos de mar, organismos que en su singularidad no pueden más que asombrar a los niños.

Por supuesto, recuerdo también el brillo de los corales y las procesiones de destellos plateados, y recuerdo también su nuca, cuando nadamos juntos aquella noche, hace ahora algo más de un año… el agua acariciaba nuestros cuerpos pero también infundía un terror primordial; era, de nuevo, una danza de sexo y muerte. Hubo otras muchas noches antes en que fuimos mecidos por ese rumor… todas iguales y diferentes a un tiempo.

Ah, me vienen tantas imágenes a la cabeza...

vendredi, 09 avril 2010

Ernst Niekisch: un rivoluzionario tedesco (1889-1967)

ERNST NIEKISCH

UN RIVOLUZIONARIO TEDESCO (1889-1967)

di Josè Cuadrado Costa

Ex: http://eurasiaunita.splinder.com/

Niekischthumb_.jpgErnst Niekisch è la figura più rappresentativa del complesso e multiforme panorama che offre il movimento nazional-bolscevico tedesco degli anni 1918-1933. In lui si incarnano con chiarezza le caratteristiche - e le contraddizioni - evocate dal termine nazional-bolscevico e che rispondono molto più ad uno stato d'animo, ad una disposizione attivista, che ad una ideologia dai contorni precisi o ad una unità organizzativa, poiché questo movimento era composto da una infinità di piccoli circoli, gruppi, riviste ecc. senza che ci fosse mai stato un partito che si fosse qualificato nazional-bolscevico. E’ curioso constatare come nessuno di questi gruppi o persone usò questo appellativo (se escludiamo la rivista di Karl Otto Paetel, "Die Sozialistische Nation") bensì che l’aggettivo fu impiegato in modo dispregiativo, non scevro di sensazionalismo, dalla stampa e dai partiti sostenitori della Repubblica di Weimar, dei quali tutti i nazional-bolscevichi furono feroci nemici non essendoci sotto questo punto di vista differenze fra gruppi d’origine comunista che assimilarono l’idea nazionale ed i gruppi nazionalisti disposti a perseguire scambi economici radicali e l’alleanza con l'URSS per distruggere l'odiato sistema nato dal Diktat di Versailles. Ernst Niekisch nacque il 23 maggio 1889 a Trebnitz (Slesia). Era figlio di un limatore che si trasferì a Nordlingen im Reis (Baviera-Svevia) nel 1891. Niekisch frequenta gli studi di magistero, che termina nel 1907, esercitando poi a Ries e Augsburg. Non era frequente nella Germania guglielmina - quello Stato in cui si era realizzata la vittoria del borghese sul soldato secondo Carl Schmitt - che il figlio di un operaio studiasse, per cui Niekisch dovette soffrire le burle e l’ostilità dei suoi compagni di scuola. Già in quel periodo era avido di sapere ("Una vita da nullità è insopportabile", dirà) e divorato da un interiore fuoco rivoluzionario; legge Hauptmann, Ibsen, Nietzsche, Schopenhauer, Kant, Hegel e Macchiavelli, alla cui influenza si aggiungerà quella di Marx, a partire dal 1915. Arruolato nell’esercito nel 1914, seri problemi alla vista gli impediscono di giungere al fronte, per cui eserciterà, sino al febbraio del 1917, funzioni di istruttore di reclute ad Augsburg. Nell’ottobre del 1917 entra nel Partito Socialdemocratico (SPD) e si sente fortemente attratto dalla rivoluzione bolscevica. E' di quell’epoca il suo primo scritto politico, oggi perso, intitolato significativamente Licht aus dem osten (Luce dall’Est), nel quale già formulava ciò che sarà una costante della sua azione politica: l’idea della "Ostorientierung". La diffusione di questo foglio sarà sabotata dallo stesso SPD al cui periodico di Augsburg "Schwabischen Volkszeitung" collaborava Niekisch. Il 7 novembre 1918 Eisner, a Monaco, proclama la Repubblica. Niekisch fonda il Consiglio degli Operai e Soldati di Augsburg e ne diviene il presidente, dopo esserlo già stato del Consiglio Centrale degli Operai, Contadini e Soldati di Monaco nel febbraio e nel marzo del 1919. Egli è l’unico membro del Comitato Centrale che vota contro la proclamazione della prima Repubblica sovietica in Baviera, poiché considera che questa, in ragione del suo carattere agrario, sia la provincia tedesca meno idonea a realizzare l’esperimento. Malgrado ciò, con l’entrata dei Freikorps a Monaco, Niekisch viene arrestato il 5 maggio - giorno in cui passa dal SPD al Partito Socialdemocratico Indipendente (USPD). lI 22 giugno viene condannato a due anni di fortezza per la sua attività nel Consiglio degli Operai e Soldati, per quanto non abbia avuto nulla a che vedere con i crimini della Repubblica sovietica bavarese. Niekisch sconta integralmente la sua pena, e nonostante l’elezione al parlamento bavarese nelle liste della USPD non sarà liberato fino all’agosto del 1921. Frattanto, si ritrova nel SPD per effetto della riunificazione dello stesso con la USPD (la scissione si era determinata durante la guerra mondiale). Niekisch non è assolutamente d’accordo con la politica condiscendente dell’SPD - per temperamento era incapace di sopportare le mezze tinte o i compromessi - ed a questa situazione di sdegno si aggiungevano le minacce contro di lui e la sua famiglia (si era sposato nel 1915 ed aveva un figlio); così rinuncia al suo mandato parlamentare e si trasferisce a Berlino, dove entra nella direzione della segreteria giovanile del grande sindacato dei tessili, un lavoro burocratico che non troverà di suo gradimento. I suoi rapporti con L'SPD si deteriorano progressivamente, per il fatto che Niekisch si oppone al pagamento dei danni di guerra alla Francia e al Belgio e appoggia la resistenza nazionale quando la Francia occupa il bacino della Ruhr, nel gennaio del 1923. Dal 1924 si oppone anche al Piano Dawes, che regola il pagamento dei danni di guerra imposto alla Germania a Versailles. Niekisch attaccò frontalmente la posizione dell’SPD di accettazione del Piano Dawes in una conferenza di sindacalisti e socialdemocratici scontrandosi con Franz Hilferding, principale rappresentante della linea ufficiale.

NeI 1925 Niekisch, che è redattore capo della rivista socialista Firn (Il nevaio), pubblica i due primi lavori giunti fino a noi: Der Weg der deutschen Arbeiterschaft zum Staat e Grundfragen deutscher Aussenpolitik. Entrambe le opere testimoniano una influenza di Lassalle molto maggiore di quella di Marx/Engels, un aspetto che fa somigliare queste prime prese di posizione di Niekisch a quelle assunte nell’immediato dopoguerra dai comunisti di Amburgo, che si separarono dal Partito Comunista Tedesco (KPD) per fondare il Partito Comunista Operaio Tedesco (KAPD), guidato da Laufenberg e Wolffheim, che era un accanito partigiano della lotta di liberazione contro Versailles (questo partito, che giunse a disporre di una base abbastanza ampia, occupa un posto importante nella storia del nazionalbolscevismo). Nei suoi scritti del 1925, Niekisch propone che l'SPD si faccia portavoce dello spirito di resistenza del popolo tedesco contro l'imperialismo capitalista delle potenze dell’Intesa, ed allo stesso tempo sostiene che la liberazione sociale delle masse proletarie ha come presupposto inevitabile la liberazione nazionale. Queste idee, unite alla sua opposizione alla politica estera filofrancese dell’SPD ed alla sua lotta contro il Piano Dawes, gli attirano la sfiducia dei vertici socialdemocratici. Il celebre Eduard Bernstein lo attaccherà per suoi atteggiamenti nazionalistici sulla rivista "Glocke". In realtà, Niekisch non fu mai marxista nel senso ortodosso della parola: concedeva al marxismo valore di critica sociale, ma non di WeItanschauung, ed immaginava lo Stato socialista al di sopra di qualsiasi interesse di classe, come esecutore testamentario di Weimar e Königsberg (cioè di Goethe e Kant). Si comprende facilmente come questo genere di idee non fossero gradite all'imborghesita direzione dell’SPD... Ma Niekisch non era isolato in seno al movimento socialista, poiché manteneva stretti rapporti con il Circolo Hofgeismar della Gioventù Socialista, che ne rappresentava l’ala nazionalista fortemente influenzata dalla Rivoluzione conservatrice. Niekisch scrisse spesso su "Rundbrief", la rivista di questo circolo, dal quale usciranno fedeli collaboratori quando avrà inizio l’epoca di "Widerstand": fra essi Benedikt Qbermayr, che lavorerà con Darré nel Reichsmährstand. Poco a poco l’SPD comincia a disfarsi di Niekisch: per le pressioni del suo primo presidente, Niekisch fu escluso dal suo posto nel sindacato dei tessili, e nel luglio del 1925 anticipò con le dimissioni dall'SPD il provvedimento di espulsione avviato contro di lui, ed il cui risultato non dava adito a dubbi. Inizia ora il periodo che riserverà a Niekisch un posto nella storia delle idee rivoluzionarie del XX secolo: considerando molto problematico lo schema "destra-centro-sinistra", egli si sforza di raggruppare le migliori forze della destra e della sinistra (conformemente alla celebre immagine del ferro di cavallo, in cui gli estremi si trovano più vicini fra loro di quanto non lo siano con il centro) per la lotta contro un nemico che definisce chiaramente: all’esterno l’Occidente liberale ed il Trattato di Versailles; all’interno il liberalismo di Weimar. Nel luglio del 1926 pubblica il primo numero della rivista Widerstand ("Resistenza"), e riesce ad attirare frazioni importanti - per numero ed attivismo - dell’antico Freikorps "Bund Oberland" mentre aderisce all'Altsozialdemokratische Partei (ASP) della Sassonia, cercando di utilizzarlo come piattaforma per i suoi programmi di unificazione delle forze rivoluzionarie. Per questa ragione si trasferisce a Dresda, dove dirige il periodico dell’ASP ("Der Volkstaat"), conducendo una dura lotta contro la politica filo-occidentale di Stresemann, opponendo al trattato di Locarno, con il quale la Germania riconosceva come definitive le sue frontiere occidentali ed il suo impegno a pagare i danni di guerra, lo spirito del trattato di Rapallo (1922), con il quale la Russia sovietica e la Germania sconfitta - i due paria d'Europa - strinsero le loro relazioni solidarizzando contro le potenze vincitrici. L'esperienza con l’ASP termina quando questo partito è sconfitto nelle elezioni del 1928, e ridotto ad entità insignificante. Questo insuccesso non significa assolutamente che Niekisch abbandoni la lotta scoraggiato. Al contrario, è in questo periodo che scriverà le sue opere fondamentali: Gedanken über deutsche Politik, Politik und idee (entrambe del 1929), Entscheidung (1930: il suo capolavoro), Der Politische Raum deutschen Widerstandes (1931) e Politik deutschen Widerstandes (1932). Parallelamente a questa attività pubblicistica, continua a pubblicare la rivista "Widerstand", fonda la casa editrice che porta lo stesso nome nel 1928 e viaggia in tutti gli angoli della Germania come conferenziere. Il solo elenco delle personalità con le quali ha rapporti è impressionante (dal maggio 1929 si trasferisce definitivamente a Berlino): il filosofo Alfred Baeumler gli presenta Ernst e Georg Jünger, con i quali avvia una stretta collaborazione; mantiene rapporti con la sinistra del NSDAP. il conte Ernst zu Reventlow, Gregor Strasser (che gli offrirà di diventare redattore capo dei "Voelkischer Beobachter") e Goebbels, che è uno dei più convinti ammiratori del suo libro Entscheidung (Decisione). E’ pure determinante la sua amicizia con Carl Schmitt. Nell'ottobre del 1929, Niekisch è l’animatore dell’azione giovanile contro il Piano Young (un altro piano di "riparazioni"), pubblicando sul periodico "Die Kommenden", il 28 febbraio del 1930, un ardente appello contro questo piano, sottoscritto da quasi tutte le associazioni giovanili tedesche - fra le quali la Lega degli Studenti Nazionalsocialisti e la Gioventù Hitleriana -, e che fu appoggiato da manifestazioni di massa. I simpatizzanti della sua rivista furono organizzati in "Circoli Widerstand" che celebrarono tre congressi nazionali negli anni 1930-1932. Nell'autunno del '32 Niekisch va in URSS, partecipando ad un viaggio organizzato dalla ARPLAN (Associazione per lo studio del Piano Quinquennale sovietico, fondata dal professor Friedrich Lenz, altra figura di spicco del nazional-bolscevismo). Questi dati biografici erano indispensabili per presentare un uomo come Niekisch, che è praticamente uno sconosciuto; e per poter comprendere le sue idee, idee che, d'altra parte, egli non espose mai sistematicamente - era un rivoluzionario ed uno scrittore da battaglia -, ne tenteremo una ricostruzione. Dal 1919 Niekisch era un attento lettore di Spengler (cosa che non deve sorprendere in un socialista di quell' epoca, nella quale esisteva a livello intellettuale e politico una compenetrazione tra destra e sinistra, quasi una osmosi, impensabile nelle attuali circostanze), del quale assimilerà soprattutto la famosa opposizione fra "Kultur" e "Zivilisation". Ma la sua concezione politica fu notevolmente segnata dalla lettura di un articolo di Dostoevskij che ebbe una grande influenza nella Rivoluzione conservatrice tramite il Thomas Mann delle Considerazioni di un apolitico, e di Moeller van den Bruck con Germania, potenza protestante (dal Diario di uno scrittore, maggio/giugno 1877, cap. III). Il termine "protestante" non ha nessuna connotazione religiosa, ma allude al fatto che la Germania, da Arminio ad oggi, ha sempre "protestato" contro le pretese romane di dominio universale, riprese dalla Chiesa cattolica e dalle idee della Rivoluzione francese, prolungandosi, come segnalerà Thomas Mann, sino agli obiettivi dell' Intesa che lottò contro la Germania nella Prima Guerra Mondiale. Da questo momento, l’odio verso il mondo romano diventa un aspetto essenziale del pensiero di Niekisch, e le idee espresse in questo articolo di Dostoevskij rafforzano le sue concezioni. Niekisch fa risalire la decadenza del germanesimo ai tempi in cui Carlomagno compì il massacro della nobiltà sassone ed obbligò i sopravvissuti a convertirsi al cristianesimo: cristianesimo che per i popoli germanici fu un veleno mortale, il cui scopo è stato quello di addomesticare il germanesimo eroico al fine di renderlo maturo per la schiavitù romana. Niekisch non esita a proclamare che tutti i popoli che dovevano difendere la propria libertà contro l’imperialismo occidentale erano obbligati a rompere con il cristianesimo per sopravvivere. Il disprezzo per il cattolicesimo si univa in Niekisch all’esaltazione del protestantesimo tedesco, non in quanto confessione religiosa (Niekisch censurava aspramente il protestantesimo ufficiale, che accusava di riconciliarsi con Roma nella comune lotta antirivoluzionaria), ma in quanto presa di coscienza orgogliosa dell’essere tedesco e attitudine aristocratica opposta agli stati d’animo delle masse cattoliche: una posizione molto simile a quella di Rosenberg, visto che difendevano entrambi la libertà di coscienza contro l’oscurantismo dogmatico (Niekisch commentò sulla sua rivista lo scritto di Rosenberg "il mito del XX secolo").Questa attitudine ostile dell'imperialismo romano verso la Germania è continuata attraverso i secoli, poiché "ebrei", gesuiti e massoni sono da secoli coloro che hanno voluto schiavizzare ed addomesticare i barbari germanici. L’accordo del mondo intero contro la Germania che si manifesta soprattutto quando questa si è dotata di uno Stato forte, si rivelò con particolare chiarezza durante la Prima Guerra Mondiale, dopo la quale le potenze vincitrici imposero alla Germania la democrazia (vista da Niekisch come un fenomeno di infiltrazione straniera) per distruggerla definitivamente. Il Primato del politico sull' economico fu sempre un principio fondamentale del pensiero di Niekisch.

Niekisch_-_Der_politische_Raum.jpgFortemente influenzato da Carl Schmitt, e partendo da questa base, Niekisch doveva vedere come nemico irriducibile il liberalismo borghese, che valorizza soprattutto i principi economici e considera l'uomo soltanto isolatamente, come unità alla ricerca del suo esclusivo profitto. l'individualismo borghese (con i conseguenti Stato liberale di diritto, libertà individuali, considerazioni dello Stato come un male) e materialismo nel pensiero di Niekisch appaiono come caratteristiche essenziali della democrazia borghese. Nello stesso tempo, Niekisch sviluppa una critica non originale, ma efficace e sincera, del sistema capitalista come sistema il cui motore è l’utile privato e non il soddisfacimento delle necessità individuali e collettive; e che, per di più, genera continuamente disoccupazione. In questo modo la borghesia viene qualificata come nemico interno che collabora con gli Stati occidentali borghesi all’oppressione della Germania. Il sistema di Weimar (incarnato da democratici, socialisti e clericali) rappresentava l’opposto dello spirito e della volontà statale dei tedeschi, ed era il nemico contro il quale si doveva organizzare la “Resistenza". Quello di "Resistenza" è un'altro concetto fondamentale dell'opera di Niekisch. La rivista dallo stesso nome recava, oltre al sottotitolo (prima "Blätter für sozialistische und nationalrevolutionäre Politik", quindi "Zeitschrift für nationalrevolutionäre Politik") una significativa frase di Clausewitz: "La resistenza è un'attività mediante la quale devono essere distrutte tante forze del nemico da indurlo a rinunciare ai suoi propositi". Se Niekisch considerava possibile questa attitudine di resistenza è perché credeva che la situazione di decadenza della Germania fosse passeggera, non irreversibile; e per quanto a volte sottolineasse che il suo pessimismo era “illimitato", si devono considerare le sue dichiarazioni in questo senso come semplici espedienti retorici, poiché la sua continua attività rivoluzionaria è la prova migliore che in nessun momento cedette al pessimismo ed allo sconforto. Abbiamo visto qual era il nemico contro cui dover organizzare la resistenza: “La democrazia parlamentare ed il liberalismo, il modo di vivere francese e l’americanismo". Con la stessa esattezza Niekisch definisce gli obiettivi della resistenza: l’indipendenza e la libertà della Germania, la più alta valorizzazione dello Stato, il recupero di tutti i tedeschi che si trovavano sorto il dominio straniero. Coerente col suo rifiuto dei valori economici, Niekisch non contrappone a questo nemico una forma migliore di distribuzione dei beni materiali, né il conseguimento di una società del benessere: ciò che Niekisch cercava era il superamento del mondo borghese, i cui beni si devono “detestare asceticamente". Il programma di "Resistenza" dell’aprile del 1930 non lascia dubbi da questo punto di vista: nello stesso si chiede il rifiuto deciso di tutti i beni che l’Europa vagheggia (punto 7a), il ritiro dall'economia internazionale (punto 7b), la riduzione della popolazione urbana e la ricostituzione delle possibilità di vita contadina (7c-d), la volontà di povertà ed un modo di vita semplice che deve opporsi orgogliosamente alla vita raffinata delle potenze imperialiste occidentali (7f) e, finalmente, la rinuncia al principio della proprietà privata nel senso del diritto romano, poiché “agli occhi dell’opposizione nazionale, la proprietà non ha senso né diritto al di fuori del servizio al popolo ed allo Stato”. Per realizzare i suoi obiettivi, che Uwe Sauermann definisce con precisione identici a quelli dei nazionalisti, anche se le strade e gli strumenti per conseguirli sono nuovi, Niekisch cerca le forze rivoluzionarie adeguate. Non può sorprendere che un uomo proveniente dalla sinistra come lui si diriga in primo luogo al movimento operaio. Niekisch constata che l’abuso che la borghesia ha fatto del concetto "nazionale", impiegato come copertura dei suoi interessi economici e di classe, ha provocato nel lavoratore l’identificazione fra "nazionale" e "socialreazionario", fatto che ha portato il proletariato a separarsi troppo dai legami nazionali per crearsi un proprio Stato. E per quanto questo atteggiamento dell’insieme del movimento operaio sia parzialmente giustificato, non sfugge a Niekisch il fatto che il lavoratore in quanto tale è solo appena diverso da un "borghese frustrato” senz’altra aspirazione che quella di conseguire un benessere economico ed un modo di vivere identico a quello della borghesia. Questa era una conseguenza necessaria al fatto che il marxismo è un ideologia borghese, nata nello stesso terreno del liberalismo e tale da condividere con questo una valorizzazione della vita in termini esclusivamente economici.La responsabilità di questa situazione ricade in gran parte sulla socialdemocrazia che "è soltanto liberalismo popolarizzato e che ha spinto il lavoratore nel suo egoismo di classe, cercando di farne un borghese". Questa attitudine del SPD è quella che ha portato, dopo il 1918, non alla realizzazione della indispensabile rivoluzione nazionale e sociale, bensì "alla ricerca di cariche per i suoi dirigenti” ed alla conversione in una opposizione all'interno del sistema capitalista, anziché in un partito rivoluzionario: L’SPD è un partito liberale e capitalista che impiega una terminologia socialrivoluzionaria per ingannare i lavoratori. Questa analisi è quella che porta Niekisch a dire che tutte le forme di socialismo basate su considerazioni umanitarie sono "tendenze corruttrici che dissolvono la sostanza della volontà guerriera del popolo tedesco". Influenzata molto dal “decisionismo" di Cari Schmitt, l’attitudine di Niekisch verso il KPD è molto più sfumata. Prima di tutto, ed in opposizione al SPD, fermamente basato su concezioni borghesi, il comunismo si regge “su istinti elementari". Del KPD Niekisch apprezza in modo particolare la “struttura autocratica”, la “approvazione a voce alta della dittatura”. Queste caratteristiche renderebbero possibile utilizzare il comunismo come “mezzo” ed il percorrere insieme una parte della strada. Niekisch accolse con speranza il "Programma di Liberazione Nazionale e Sociale" del KPD (24 agosto 1930) in cui si dichiarava la lotta totale contro le riparazioni di guerra e l’ordine dì Versailles, ma quando ciò si rivelò solo una tattica - diretta a frenare i crescenti successi del NSDAP-, cosi come lo era stata la "linea Schlagater" nei 1923, Niekisch denunciò la malafede dei comunisti sul problema nazionale e li qualificò come incapaci di realizzare il compito al quale lui aspirava poiché erano "solo socialrivoluzionari" e per di più poco rivoluzionari. Il ruolo dirigente nel partito rivoluzionario avrebbe quindi dovuto essere ricoperto da un "nazionalista" di nuovo stampo, senza legami con il vecchio nazionalismo (è significativo che Niekisch considerasse il partito tradizionale dei nazionalisti, il DNVP, incapace di conseguire la resurrezione tedesca perché orientato verso l'epoca guglielmina, definitivamente scomparsa). Il nuovo nazionalismo doveva essere socialrivoluzionario, non condizionato, disposto a distruggere tutto quanto potesse ostacolare l’indipendenza tedesca, ed il nuovo nazionalista, fra i cui compiti c’era quello di utilizzare l’operaio comunista rivoluzionario, doveva avere la caratteristica fondamentale di volersi sacrificare e voler servire. Secondo una bella immagine di Niekisch, il comunismo non sarebbe altro che “il fumo che inevitabilmente sale dove un mondo comincia a bruciare”.Si è vista l’immagine offerta da Niekisch della secolare decadenza tedesca, ma nel passato tedesco non tutto è oscuro; c’è un modello al quale Niekisch guarderà costantemente: la vecchia Prussia o, come egli dice, l'idea di Potsdam, una Prussia che con l'apporto di sangue slavo possa essere l’antidoto contro la Germania romanizzata.E così che esigerà, fin dai primi numeri di "Widerstand", la resurrezione di "una Germania prussiana, disciplinata e barbara, più preoccupata del potere che delle cose dello spirito". Cosa significa esattamente la Prussia per Niekisch? O.E. Schüddekopf lo ha indicato esattamente quando dice che nella "idea di Potsdam" Niekisch vedeva tutte le premesse del suo nazional-bolscevismo: "Lo Stato totale, l’economia pianificata, l’alleanza con la Russia, una condizione spirituale antiromana, la difesa contro l'Ovest, contro l'Occidente, l'incondizionato Stato guerriero, la povertà...". Nell'idea prussiana di sovranità Niekisch riconosce l'idea di cui hanno bisogno i tedeschi: quella dello "Stato totale", necessario in quanto la Germania, minacciata dall'ostilità dei vicini per la sua condizione geografica, ha bisogno di diventare uno Stato militare. Questo Stato totale deve essere lo strumento di lotta cui deve essere tutto subordinato - l'economia come la cultura e la scienza - affinchè il popolo tedesco possa ottenere la sua libertà. E’ evidente, per Niekisch - ed in questo occorre ricercare una delle ragioni più profonde del suo nazional-bolscevismo -, che lo Stato non può dipendere da un’economia capitalista in cui offerta e domanda determinino il mercato; al contrario, l’economia deve essere subordinata allo Stato ed alle sue necessità. Per qualche tempo, Niekisch ebbe fiducia in determinati settori della Reichswehr (pronunciò molte delle sue conferenze in questo ambiente militare) per realizzare l’"idea di Potsdam”, ma agli inizi del 1933 si allontanò dalla concezione di una "dittatura della Reichswehr" perché essa non gli appariva sufficientemente "pura" e "prussiana" tanto da farsi portatrice della "dittatura nazionale", e ciò era dovuto, sicuramente, ai suoi legami con le potenze economiche. Un'altro degli aspetti chiave del pensiero di Niekisch è il primato riconosciuto alla politica estera (l'unica vera politica per Spengler) su quella interna. Le sue concezioni al riguardo sono marcatamente influenzate da Macchiavelli (del quale Niekisch era grande ammiratore, tanto da firmare alcuni suoi articoli con lo pseudonimo di Niccolò) e dal suo amico Karl Haushofer. Del primo, Niekisch conserverà sempre la Realpolitik, la sua convinzione che la vera essenza della politica è sempre la lotta fra Stati per il potere e la supremazia, dal secondo apprenderà a pensare secondo dimensioni geopolitiche, considerando che nella situazione di allora - ed a maggior ragione in quella attuale - hanno un peso nella politica mondiale solamente gli Stati costruiti su grandi spazi, e siccome nel 1930 l'Europa centrale di per sè non avrebbe potuto essere altro che una colonia americana, sottomessa non solo allo sfruttamento economico, ma "alla banalità, alla nullità, al deserto, alla vacuità della spiritualità americana", Niekisch propone un grande stato "da Vladivostok sino a Vlessingen", cioè un blocco germano-slavo dominato dallo spirito prussiano con l'imperio dell'unico collettivismo che possa sopportare l'orgoglio umano: quello militare. Accettando con decisione il concetto di "popoli proletari" (come avrebbero fatto i fascisti di sinistra), il nazionalismo di Niekisch era un nazionalismo di liberazione, privo di sciovinismo, i cui obbiettivi dovevano essere la distruzione dell'ordine europeo sorto da Versailles e la liquidazione della Società delle Nazioni, strumento delle potenze vincitrici. Agli inizi del suo pensiero, Niekisch sognava un "gioco in comune" della Germania con i due Paesi che avevano saputo respingere la "struttura intellettuale" occidentale: la Russia bolscevica e l'Italia fascista (è un'altra coincidenza, tra le molte, fra il pensiero di Niekisch e quello di Ramiro Ledesma). Nel suo programma dell'aprile del 1930, Niekisch chiedeva "relazioni pubbliche o segrete con tutti i popoli che soffrono, come il popolo tedesco, sotto l'oppressione delle potenze imperialiste occidentali". Fra questi popoli annoverava l'URSS ed i popoli coloniali dell'Asia e dell'Africa. Più avanti vedremo la sua evoluzione in relazione al Fascismo, mentre ci occuperemo dell'immagine che Niekisch aveva della Russia sovietica. Prima di tutto dobbiamo dire che quest' immagine non era esclusiva di Niekisch, ma che era patrimonio comune di quasi tutti gli esponenti della Rivoluzione Conservatrice e del nazional-bolscevismo, a partire da Moeller van den Bruck, e lo saranno anche i più lucidi fascisti di sinistra: Ramiro Ledesma Ramos e Drieu la Rochelle. Perchè, in effetti, Niekisch considerava la rivoluzione russa del 1917 prima di tutto come una rivoluzione nazionale, più che come una rivoluzione sociale. La Russia, che si trovava in pericolo di morte a causa dell'infiltrazione dei valori occidentali estranei alla sua essenza, "incendiò di nuovo Mosca" per farla finita con i suoi invasori, impiegando il marxismo come combustibile. Con parole dello stesso Niekisch: "Questo fu il senso della Rivoluzione bolscevica: la Russia, in pericolo di morte, ricorse all'idea di Potsdam, la portò sino alle estreme conseguenze, quasi oltre ogni misura, e creò questo Stato assolutista di guerrieri che sottomette la stessa vita quotidiana alla disciplina militare, i cui cittadini sanno sopportare la fame quando c'è da battersi, la cui vita è tutta carica, fino all'esplosione, di volontà di resistenza". Kerenski era stato solo una testa di legno dell' Occidente che voleva introdurre la democrazia borghese in Russia (Kerenski era, chiaramente, l’uomo nel quale avevano fiducia le potenze dell’Intesa perché la Russia continuasse al loro fianco la guerra contro la Germania); la rivoluzione bolscevica era stata diretta contro gli Stati imperialisti dell’Occidente e contro la borghesia interna favorevole allo straniero ed antinazionale. Coerente con questa interpretazione, Niekisch definirà il leninismo come "ciò che rimane del marxismo quando un uomo di Stato geniale lo utilizza per finalità di politica nazionale", e citerà con frequenza la celebre frase di Lenin che sarebbe diventata il leit-motiv di tutti i nazional-bolscevichi: "Fate della causa del popolo la causa della Nazione e la causa della Nazione diventerà la causa del popolo". Nelle lotte per il potere che ebbero luogo ai vertici sovietici dopo la morte di Lenin, le simpatie di Niekisch erano dirette a Stalin, e la sua ostilità verso Trotzskij (atteggiamento condiviso, fra molti altri, anche da Ernst Jünger e dagli Strasser). Trotzskij ed i suoi seguaci, incarnavano, agli occhi di Niekisch, le forze occidentali, il veleno dell’Ovest, le forze di una decomposizione ostile a un ordine nazionale in Russia. Per questo motivo Niekisch accolse con soddisfazione la vittoria di Stalin e dette al suo regime la qualifica di "organizzazione della difesa nazionale che libera gli istinti virili e combattenti". Il Primo Piano Quinquennale, in corso quando Niekisch scriveva, era "Un prodigioso sforzo morale e nazionale destinato a conseguire l’autarchia". Era quindi l’aspetto politico-militare della pianificazione ciò che affascinava Niekisch, gli aspetti socio-economici (come nel caso della sua valutazione del KDP) lo interessavano appena. Fu in questo modo che poté coniare la formula: "collettivismo + pianificazione = militarizzazione del popolo". Quanto Niekisch apprezzava della Russia è esattamente il contrario di quanto ha attratto gli intellettuali marxisti degenerati: “La violenta volontà di produzione per rendere forte e difendere lo Stato, l’imbarbarimento cosciente dell’esistenza... l’attitudine guerriera, autocratica, dell’élite dirigente che governa dittatorialmente, l’esercizio per praticare l’ascesi di un popolo...”. Era logico che Niekisch vedesse nell’Unione Sovietica il compagno ideale di un’alleanza con la Germania, poiché incarnava i valori antioccidentali cui Niekisch aspirava. Inoltre, occorre tener presente che in quell’epoca l’URSS era uno Stato isolato, visto con sospetto dai paesi occidentali ed escluso da ogni tipo di alleanza, per non dire circondato da Stati ostili che erano praticamente satelliti della Francia e dell’Inghilterra (Stati baltici, Polonia, Romania); a questo bisogna poi aggiungere che fino a ben oltre gli inizi degli anni ‘30, l’URSS non faceva parte della Società delle Nazioni né aveva rapporti diplomatici con gli USA. Niekisch riteneva che un'alleanza Russia-Germania fosse necessaria anche per la prima, poiché "la Russia deve temere l'Asia", e solo un blocco dall'Atlantico al Pacifico poteva contenere "la marea gialla", allo stesso modo in cui solo con la collaborazione tedesca la Russia avrebbe potuto sfruttare le immense risorse della Siberia. Abbiamo visto per quali ragioni la Russia appariva a Niekisch come un modello. Ma per la Germania non si trattava di copiare l'idea bolscevica, di accettarla in quanto tale. La Germania - e su questo punto Niekisch condivide l'opinione di tutti i nazionalisti - deve cercare le sue proprie idee e forme, e se la Russia veniva portata ad esempio, la ragione era che aveva organizzato uno Stato seguendo la "legge di Potsdam" che avrebbe dovuto ispirare anche la Germania. Organizzando uno Stato assolutamente antioccidentale, la Germania non avrebbe imitato la Russia, ma avrebbe recuperato la propria specificità, alienata nel corso di tutti quegli anni di sottomissione allo straniero e che si era incarnata nello Stato russo. Per quanto gli accordi con la Polonia e la Francia sondati dalla Russia saranno osservati con inquietudine da Niekisch, che difenderà appassionatamente l'Unione Sovietica contro le minacce di intervento e contro le campagne condotte a sue discapito dalle confessioni religiose. Inoltre, per Niekisch "una partecipazione della Germania alla crociata contro la Russia significherebbe... un suicidio". Questo sarà il rimprovero più importante - e convincente - di Niekisch al nazionalsocialismo, e con ciò giungiamo ad un punto che non cessa di provocare una certa perplessità: l'atteggiamento di Niekisch verso il nazionalsocialismo. Questa perplessità non è solo nostra; durante l'epoca che studiamo, Niekisch era visto dai suoi contemporanei più o meno come un "nazi". Certamente, la rivista paracomunista "Aufbruch" lo accomunava a Hitler nel 1932; più specifica, la rivista sovietica "Moskauer Rundschau" (30 novembre 1930), qualificava il suo "Entscheidung" come "l'opera di un romantico che ha ripreso da Nietzsche la sua scala di valori". Per dei critici moderni come Armin Mohler "molto di quanto Niekisch aveva chiesto per anni sarà realizzato da Hitler", e Faye segnala che la polemica contro i nazionalsocialisti, per il linguaggio che usa "lo colloca nel campo degli stessi". Cosa fu dunque ciò che portò Niekisch ad opporsi al nazionalsocialismo? Da un'ottica retrospettiva, Niekisch considera il NSDAP fino al 1923 come un "movimento nazional-rivoluzionario genuinamente tedesco", ma dalla rifondazione del Partito, nel 1925, pronuncia un'altro giudizio, nello stesso modo in cui modificherà il suo precedente giudizio sul fascismo italiano. Troviamo l'essenziale delle critiche di Niekisch al nazionalsocialismo in un opuscolo del 1932: "Hitler - ein deutsches Verhängnis" (Hitler, una fatalità tedesca) che apparve illustrato con impressionanti disegni di un artista di valore: A. Paul Weber. Dupeux segnala con esattezza che queste critiche non sono fatte dal punto di vista dell'umanitarismo e della democrazia, com'è usuale ai nostri giorni, e Sauermann lo qualifica come un "avversario in fondo essenzialmente rassomigliante". Niekisch considerava "cattolico", "romano" e "fascista" il fatto di dirigersi alle masse e giunse ad esprimere "l'assurdo" (Dupeux) che: "che è nazista, presto sarà cattolico". In questa critica occorre vedere, per cercare di comprenderla, la manifestazione di un atteggiamento molto comune fra tutti gli autori della Rivoluzione conservatrice, che disprezzavano come "demagogia" qualsiasi lavoro fra le masse, ed occorre ricordare, anche, che Niekisch non fu mai un tattico né un "politico pratico". Allo stesso tempo occorre mettere in relazione la sfiducia verso il nazionalsocialismo con le origini austriache e bavaresi dello stesso, poiché abbiamo già visto che Niekisch guardava con diffidenza ai tedeschi del sud e dell'ovest, come influenzati dalla romanizzazione. D'altra parte, Niekisch rimprovera al nazionalsocialismo la sua "democraticità" alla Rousseau e la sua fede nel popolo. Per Niekisch l'essenziale è lo Stato: egli sviluppò sempre un vero "culto dello Stato", perfino nella sua epoca socialdemocratica, per cui risulta per lo meno grottesco qualificarlo come un "sindacalista anarchico" (sic). Niekisch commise gravi errori nella sua valutazione del nazionalsocialismo, come il prendere sul serio il "giuramento di legalità" pronunciato da Hitler nel corso del processo al tenente Scheringer, senza sospettare che si trattava di mera tattica (con parole di Lenin, un rivoluzionario deve saper utilizzare tutte le risorse, legali ed illegali, servirsi di tutti i mezzi secondo la situazione, e questo Hitler lo realizzò alla perfezione), e ritenere che Hitler si trovasse molto lontano dal potere...nel gennaio del 1933. Questi errori possono spiegarsi facilmente, come ha fatto Sauermann, con il fatto che Niekisch giudicava il NSDAP più basandosi sulla propaganda elettorale che sullo studio della vera essenza di questo movimento. Tuttavia, il rimprovero fondamentale concerne la politica estera. Per Niekisch, la disponibilità - espressa nel "Mein Kampf" - di Hitler ad un'intesa con Italia ed Inghilterra e l'ostilità verso la Russia erano gli errori fondamentali del nazionalsocialismo, poiché questo orientamento avrebbe fatto della Germania un "gendarme dell'Occidente". Questa critica è molto più coerente delle anteriori. L'assurda fiducia di Hitler di poter giungere ad un accordo con l'Inghilterra gli avrebbe fatto commettere gravi errori (Dunkerque, per citarne uno); sulla sua alleanza con l'Italia, determinata dal sentimento e non dagli interessi - ciò che è funesto in politica - egli stesso si sarebbe espresso ripetutamente e con amarezza. Per quanto riguarda l'URSS, fra i collaboratori di Hitler Goebbels fu sempre del parere che si dovesse giungere ad un intesa, e perfino ad un'alleanza con essa, e ciò non solo nel periodo della sua collaborazione con gli Strasser, ma sino alla fine del III Reich, come ha dimostrato inequivocabilmente il suo ultimo addetto stampa Wilfred von Owen nel suo diario ("Finale furioso. Con Goebbels sino alla fine"), edito per la prima volta - in tedesco - a Buenos Aires (1950) e proibito in Germania sino al 1974, data in cui fu pubblicato dalla prestigiosa Grabert-Verlag di Tübingen, alla faccia degli antisovietici e filo-occidentali di professione. La denuncia, sostenuta da Niekisch, di qualsiasi crociata contro la Russia, assunse toni profetici quando evocò in un' immagine angosciosa "le ombre del momento in cui le forze...della Germania diretta verso l'Est, sperperate, eccessivamente tese, esploderanno...Resterà un popolo esausto, senza speranza, e l'ordine di Versailles sarà più forte che mai". Indubbiamente Ernst Niekisch esercitò, negli anni dal 1926 al 1933, una influenza reale nella politica tedesca, mediante la diffusione e l'accettazione dei suoi scritti negli ambienti nazional-rivoluzionari che lottavano contro il sistema di Weimar. Questa influenza non deve essere valutata, certamente in termini quantitativi: l'attività di Niekisch non si orientò mai verso la conquista delle masse, né il carattere delle sue idee era il più adeguato a questo fine. Per fornire alcune cifre, diremo che la sua rivista "Widerstand" aveva una tiratura che oscillava fra le 3.000 e le 4.500 copie, fatto che è lungi dall'essere disprezzabile per l'epoca, ed in più trattandosi di una rivista ben presentata e di alto livello intellettuale; i circoli "Resistenza" raggruppavano circa 5.000 simpatizzanti, dei quali circa 500 erano politicamente attivi. Non è molto a paragone dei grandi partiti di massa, ma l'influenza delle idee di Niekisch dev'essere valutata considerando le sue conferenze, il giro delle sue amicizie (di cui abbiamo già parlato), i suoi rapporti con gli ambienti militari, la sua attività editoriale, e soprattutto, la speciale atmosfera della Germania in quegli anni, in cui le idee trasmesse da "Widerstand" trovavano un ambiente molto ricettivo nelle Leghe paramilitari, nel Movimento Giovanile, fra le innumerevoli riviste affini ed anche in grandi raggruppamenti come il NSDAP, lo Stahlhelm, ed un certo settore di militanti del KPD (come si sa, il passaggio di militanti del KPD nel NSDAP, e viceversa, fu un fenomeno molto comune negli ultimi anni della Repubblica di Weimar, anche se gli storici moderni ammettono che vi fu una percentuale maggiore di rivoluzionari che percorsero il primo tipo di tragitto, ancor prima dell'arrivo di Hitler al potere). Queste brevi osservazioni possono a ragione far ritenere che l'influenza di Niekisch fu molto più ampia di quanto potrebbe far pensare il numero dei suoi simpatizzanti. Il 9 marzo del 1933 Niekisch è arrestato da un gruppo di SA ed il suo domicilio perquisito. Viene posto in libertà immediatamente, ma la rivista "Entscheidung", fondata nell'autunno del 1932, viene sospesa. "Widerstand", al contrario, continuerà ad apparire sino al dicembre del 1934, e la casa editrice dallo stesso nome pubblica libri sino al 1936 inoltrato. Dal 1934 Niekisch viaggia per quasi tutti i paesi d'Europa, nei quali sembra abbia avuto contatti con i circoli dell'emigrazione. Nel 1935, nel corso di una visita a Roma, viene ricevuto da Mussolini. Non si può fare a meno di commuoversi nell'immaginare questo incontro, disteso e cordiale, fra due grandi uomini che avevano iniziato la loro carriera politica nelle file del socialismo rivoluzionario. Alla domanda di Mussolini su che cosa aveva contro Hitler, Niekisch rispose:"Faccio mie le vostre parole sui popoli proletari". Mussolini rispose."E' quanto dico sempre a Hitler". (Va ricordato che questi scrisse una lettera a Mussolini - il 6 marzo 1940 - in cui gli spiegava il suo accordo con la Russia, perché "ciò che ha portato il nazionalsocialismo all'ostilità contro il comunismo è solo la posizione - unilaterale - giudaico-internazionale, e non, al contrario, l'ideologia dello Stato stalinista-russo-nazionalista". Durante la guerra, Hitler esprimerà ripetutamente la sua ammirazione per Stalin, in contrasto con l'assoluto disprezzo che provava per Roosevelt e Churchill). Nel marzo del 1937 Niekisch è arrestato con 70 dei suoi militanti (un gran numero di membri dei circoli "Resistenza" aveva cessato la propria attività, significativamente, nel constatare che Hitler stava portando avanti realmente la demolizione del Diktat di Versailles che anch'essi avevano tanto combattuto). Nel gennaio del 1939 è processato davanti al Tribunale Popolare, accusato di alto tradimento ed infrazione sulla legge sulla fondazione di nuovi partiti, e condannato all'ergastolo. Sembra che le accuse che più pesarono contro di lui furono i manoscritti trovati nella sua casa, nei quali criticava Hitler ed altri dirigenti del III Reich. Fu incarcerato nella prigione di Brandenburg sino al 27 aprile del 1945, giorno in cui viene liberato dalle truppe sovietiche, quasi completamente cieco e semiparalitico. Nell'estate del 1945 entra nel KPD che, dopo la fusione nella zona sovietica con l'SPD, nel 1946 si denominerà Partito Socialista Unificato di Germania (SED) e viene eletto al Congresso Popolare come delegato della Lega Culturale. Da questo posto difende una via tedesca al socialismo e si oppone dal 1948 alle tendenze di una divisione permanete della Germania. Nel 1947 viene nominato professore all'Università Humboldt di Berlino, e nel 1949 è direttore dell' "Istituto di Ricerche sull'Imperialismo"; in quell'anno pubblica uno studio sul problema delle élites in Ortega y Gasset. Niekisch non era, ovviamente, un "collaborazionista" servile: dal 1950 si rende conto che i russi non vogliono un "via tedesca" al socialismo, ma solo avere un satellite docile (come gli americani nella Germania federale). Coerentemente con il suo modo di essere, fa apertamente le sue critiche e lentamente cade in disgrazia; nel 1951 il suo corso è sospeso e l'Istituto chiuso. Nel 1952 ha luogo la sua scomunica definitiva, effettuata dall'organo ufficiale del Comitato Centrale del SED a proposito del suo libro del 1952 "Europäische Bilanz". Niekisch è accusato di "...giungere a erronee conclusioni pessimistiche perché, malgrado l'occasionale impiego della terminologia marxista, non impiega il metodo marxista...la sua concezione della storia è essenzialmente idealista...". Il colpo finale è dato dagli avvenimenti del 17 giugno del 1953 a Berlino, che Niekisch considera come una legittima rivolta popolare. La conseguente repressione distrugge le sue ultime speranze nella Germania democratica e lo induce a ritirarsi dalla politica. Da questo momento Niekisch, vecchio e malato, si dedica a scrivere le sue memorie cercando di dare al suo antico atteggiamento di "Resistenza" un significato di opposizione a Hitler, nel tentativo di cancellare le orme della sua opposizione al liberalismo. In ciò fu aiutato dalla ristretta cerchia dei vecchi amici sopravvissuti. Il più influente fra loro fu il suo antico luogotenente, Josef Drexel, vecchio membro del Bund Oberland e divenuto, nel secondo dopoguerra, magnate della stampa in Franconia. Questo tentativo può spiegarsi, oltre che con il già menzionato stato di salute di Niekisch, con la sua richiesta di ottenere dalla Repubblica Federale (viveva a Berlino Ovest) una pensione per i suoi anni di carcere. Questa pensione gli fu sempre negata, attraverso una interminabile serie di processi. I tribunali basarono il rifiuto su due punti: Niekisch aveva fatto parte di una setta nazionalsocialista (sic) ed aveva collaborato in seguito al consolidamento di un'altro totalitarismo: quello della Germania democratica. Cosa bisogna pensare di questi tentativi di rendere innocuo Niekisch si deduce da quanto fin qui esposto. La storiografia più recente li ha smentiti del tutto. Il 23 maggio del 1967, praticamente dimenticato, Niekisch moriva a Berlino. Malgrado sia quasi impossibile trovare le sue opere anteriori al 1933, in parte perché non ripubblicate ed in parte perché scomparse dalle biblioteche, A. Mohler ha segnalato che Niekisch torna farsi virulento, e fotocopie dei suoi scritti circolano di mano in mano fra i giovani tedeschi disillusi dal neo-marxismo (Marcuse, Suola di Frankfurt). La critica storica gli riconosce sempre maggiore importanza. DI quest'uomo, che si oppone a tutti i regimi presenti nella Germania del XX secolo, bisogna dire che mai operò mosso dall'opportunismo. I suoi cambi di orientamento furono sempre il prodotto della sua incessante ricerca di uno Stato che potesse garantire la liberazione della Germania e dello strumento idoneo a raggiungere questo obiettivo. Le sue sofferenze - reali - meritano il rispetto dovuto a quanti mantengono coerentemente le proprie idee. Niekisch avrebbe potuto seguire una carriera burocratica nell'SPD, accettare lo splendido posto offertogli da Gregor Strasser, esiliarsi nel 1933, tacere nella Germania democratica...Ma sempre fu fedele al suo ideale ed operò come credeva di dover fare senza tener conto delle conseguenze personali che avrebbero potuto derivargli. La sua collaborazione con il SED è comprensibile, ed ancor più il modo in cui si concluse. Oggi che l'Europa è sottomessa agli pseudovalori dell'Occidente americanizzato, le sue idee e la sua lotta continuano ad avere un valore esemplare. E' quanto compresero i nazional-rivoluzionari di "Sache del Volches" quando, nel 1976, apposero una targa sulla vecchia casa di Niekisch, con la frase: "O siamo un popolo rivoluzionario o cessiamo definitivamente di essere un popolo libero".

Josè Cuadrado Costa

Articolo tratto dai numeri 56 e 57 di Orion

Per l'approfondimento dell'argomento si consigliano:
- AA.VV., Nazionalcomunismo. Prospettive per un blocco eurasiatico. Ed. Barbarossa 1996
- Origini n°2, L'opposizione nazionalrivoluzionaria al Terzo Reich 1988
- E. Niekisch, Est & Ovest. Considerazioni in ordine sparso. Ed. Barbarossa 2000
- E. Niekisch, Il regno dei demoni. Panorama del Terzo Reich. Feltrinelli Editore 1959
- A. Mohler, La Rivoluzione Conservatrice. Ed. Akropolis 1990

 

mercredi, 07 avril 2010

Eugen Diederichs, der Sera-Kreis und die Sonnenwendfeiern auf dem Hohen Lehden bei Jena

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Eugen Diederichs, der Sera-Kreis und die Sonnenwendfeiern auf dem Hohen Lehden bei Jena

Ex: http://www.eiwatz.de/

diederichs-eugen-1896.jpgZum Ende des 19. Jahrhunderts klingt ein Zeitalter der europäischen Kultur- und Geistesgeschichte aus, welches zugleich den Wendepunkt zur Moderne darstellt. Auf der Suche nach einem neuen Sinn und einem neuen Halt begibt sich die nun folgende Generation von Künstlern, Dichtern, Denkern und Ästhetikern. Einer dieser Suchenden ist Eugen Diederichs. Er wird den Weg eines Verlegers bestreiten, um auf diese neue Epoche nach seinen Vorstellungen einzuwirken. Im Jahr 1896 gründet er sein Unternehmen in Italien und verlegt kurze Zeit später den Sitz des Geschäftes nach Jena – in die Nähe seines Geburtsortes. Einen Versammlungsort moderner Geister will er begründen. Modern meint bei ihm aber nicht fortschrittlich und sich nach aktuellen Erscheinungen richtend. Bei der Auswahl seiner Autoren und deren Werke wird er nicht fragen, ob diese dem Geschmack des deutschen Lesers entsprechen und zeitgemäß sind, sondern er wird abwägen, inwiefern diese einer neuen Kultur zu gute kommen, die sich nicht nur von Rationalität und Wissenschaftlichkeit vereinnahmen lässt. Eugen Diederichs fragt nicht, was das deutsche Volk lesen will – er möchte jene Bücher darreichen, die seines Erachtens notwendig sind, um dem beginnenden Jahrhundert die richtigen Impulse zu geben. Die Gebiete auf denen er dies tun möchte sind vielfältig: Theosophie, Religion, Bildung und Pädagogik sind nur einige davon. Man kann ihn hinsichtlich seiner Programmatik nicht in eine Schublade stecken. Ob Neuromantiker, konservativer Revolutionär oder Antimodernist – nichts von alledem war er durch und durch, doch sicherlich kann man ihm für gewisse Anschauungen dieses oder jenes Etikett aufdrücken. Eines will er jedoch sein – und so definiert er auch seine eigene Tätigkeit: Kulturverleger. Viele seiner Autoren wollen mit ihrem Verleger reformieren, Neues gestalten, aber auch Altes bewahren. Dass diese Vorstöße nicht alle in die gleiche Richtung zielen versteht sich bei der Menge von verlegten Schriften, die diese Absicht verfolgen, von selbst. Dies kann auch kein Vorwurf an den Verleger sein – selbst wenn jener versucht Gegensätzliches zusammenzuführen. Nach dem 1. Weltkrieg schlägt Diederichs Enthusiasmus und Tatendrang manchmal in Resignation sowie Willen- und Ideenlosigkeit um. Er wird von so manchen verhöhnt und belächelt. Doch im Glauben an das nach seinen Grundsätzen neu zu schaffende Deutschland bleibt er seinen Prinzipien treu.
Zu den ersten Gesamtausgaben, die der Verlag veröffentlicht, gehören die Werke von John Ruskin, Leo Tolstoi und Novalis. Es folgen die Schriften von Platon, Kierkegaard, Bruno, Meister Eckhart, Paracelsus, u. v. a. Besonderes Gewicht legt der Verlag von Anbeginn auf Serienausgaben. Schwerpunkte bildeten hier die Volkskunde und Kulturgeschichte, sowie bedeutende Persönlichkeiten aus der deutschen Vergangenheit. Auch eine umfangreiche Sammlung von Märchen aus aller Welt gehört zu den bedeutenderen Veröffentlichungen. Ein Juwel seines verlegerischen Schaffens ist ein Projekt, das bis zum heutigen Zeitpunkt seines gleichen sucht: die Thule-Sammlung. In 24 Bänden werden die alten Literaturen des Nordens (darunter die jüngere und ältere Edda, sowie eine große Zahl von Sagas), durch die Bearbeitung und Übersetzung der zu dieser Zeit führenden Germanisten und Nordisten einem breiten Lesepublikum zugänglich gemacht.
Doch nicht nur inhaltlich, sondern auch gestaltungstechnisch setzt der Verlag neue Maßstäbe. Seit dem Beginn seiner unternehmerischen Tätigkeit legt Diederichs besonderes Augenmerk auf den künstlerischen Wert seiner Bücher. In den kommenden Jahren gelingt es ihm zahlreiche Zeichner und Graphiker, die dem neu aufkommenden Jugendstil zum Teil sehr nahe stehen, um sich zu scharen. Mit jenen wird er neue Akzente in Sachen ästhetischer Buchgestaltung setzen. Als größten Erfolg dieser Seite seines Schaffens konnte der Verlag einen „Grand Prix“ bei der Brüsseler Weltausstellung des Jahres 1910 verbuchen.

Zu jener Zeit, als Eugen Diederichs beginnt seinen Verlag auf die Beine zu stellen und sich auf die Suche nach geeigneten Autoren begibt, gründet sich der Wandervogel . Auch die Jugend versucht dem politisch, seelisch und geistig erstarrten wilhelminischen Deutschland zu entfliehen. Sie will sich aus den Fesseln der dekadenten Großstädte befreien und auf Fahrt in der Natur bei Tanz und Gesang ihre eigene Bestimmung finden. Diederichs fühlt sich dieser Bewegung innerlich verbunden und wird versuchen Versäumnisse seiner eigenen Jugendzeit nachzuholen. Später wird er zu den Initiatoren des im Jahre 1913 stattfindenden Jugendtages auf dem Hohen Meißner zählen und als Teilnehmer einer der wenigen aus der Riege der Älteren sein. Zu Beginn seiner Zusammenarbeit mit der jüngeren Generation findet er sich mit der in Jena ansässigen Freien Studentenschaft zusammen, welche sich aus vielen Aktiven der Jugendbewegung rekrutiert. Um Diederichs entsteht ein loser Zusammenschluss junger Menschen: der Sera-Kreis. Man trifft sich zukünftig, um Volkstänze und Theaterstücke einzustudieren und das deutsche Volkslied neu zu entdecken und künstlerisch mit mehrstimmigen Gesang zu erhöhen. Auf den sog. Vagantenfahrten werden in historischen Kostümen die neuen Errungenschaften einem beliebigen Publikum zum Besten gegeben. Man tritt spontan auf Plätzen und Märkten in kleineren Städten der Umgebung auf, scheut aber auch nicht den Weg zu bekannten Gutsbesitzern oder Adligen und Künstlern der Region. Zum Markenzeichen des Kreises gehört schon bald eine eigene farbenfrohe Festkleidung. Auf dem Haupt trug man selbstgeflochtene Blumenkränze. Der Sera-Kreis hebt sich nunmehr rein äußerlich, aber auch in seinem Tun, allein aufgrund der Tatsache, dass er keiner Organisationsstruktur bedarf, von anderen Jugendbünden ab. Zunächst ist es Diederichs, der die Gruppe nach seinen Vorstellungen prägt. Doch schon bald sind es die älteren Jugendlichen, die dem Kreis ihr eigenes Gesicht geben, aber ihren Gründungsvater weiterhin respektieren und hören werden. Treffpunkt ist zum einen das Haus des Verlegers, aber auch einige seiner Autoren finden rasch Zugang zu den Jugendlichen und stehen mit Rat und Tat zur Verfügung. Alljährlicher Höhepunkt des gemeinschaftlichen Wirkens ist die Sommersonnenwendfeier auf dem Hohen Lehden, von der ein Sera-Mann folgendes berichtet:

Ein Zug zieht singend daher; alles schließt sich unwillkürlich an, so kommt man zum Platz der Szene ohne große Ankündigung. Publikum gibt es nicht dabei, alle sind eins! [...]
Die Gewitterschwüle löschte sich in leisem, doch bald nachlassendem Regen. Dann kamen die Leute, die mit dem Zug gefahren waren, so um sechs. Zusammen waren wir immerhin 250 Menschen! Ein feierliches Sera-Tanzen grüßte sie. Dann kamen schnell ein paar flinke Tänze. Wie behend die Mädchen sprangen! Dann ein Umzug, ein großer Kreis, und alles lagerte sich. Eugen Diederichs tritt in die Mitte: „Freunde!“ und sprach seine Worte, und als er schloß mit dem Sonnengesang des heiligen Franz, da brach wieder die Sonne durchs Gewölk; und dann kam das feierlich, gemessene „Maienzeit bannet Leid“ und wieder Tänze.
Dann auf dem Theaterplatz eine Komödie von Spangenberg „Glückswechsel“ (1613) [...].
Da war es schon Abend geworden. Im Westen lagen große Streifen, rot und gelb; und die Sonne warf ihre Strahlen – als ob sie gewusst hätte, dass sie gefeiert wurde [...].
Dann wieder Tänze und Lieder, bis es ganz dunkel war, und auf einmal ein paar Leute, die brennende Fackeln in den Händen hielten und sangen: „Nun kommen wir gegangen.“ Alles fiel ein, und so zog man daher zum Holzstoß, und krachend fuhren die Fackeln ins Reisig. Dann der Tanz ums große Feuer im Kreis - Einzelne lösen sich ab und jagen zu zweit durch die Funken, die fallen wie Schneeflocken nahe am Feuer vorbei, selber glühend. Dann stand auf einmal alles: „Freude schöner Götterfunken!“ ... Dann war’s soweit, dass man springen konnte. Hei das war eine Sache!
Wie so alles in uns zusammenbricht, was die Jahrhunderte in uns mühsam aufgebaut! Gegenüber dem Feuer sind wir doch immer wieder nichts anderes als der Heide vor tausend Jahren oder zweitausend.
So erleben wir’s elementar!
[...] Doch das war das Schönste, was diese Nacht uns bot: dieser friedliche Sternenhimmel, der so unsäglich ruhig und gelassen über uns war, und diese geläuterte, durchs Feuer gereinigte Stimmung. So lag man wortlos und glücklich und genoß die Nähe geliebter Menschen und sah den Himmel, wie da ein Stern fiel und dort wieder einer; oder man barg sein Gesicht im kühlen Gras. [...]


So offenbart sich jugendlicher Sinn für hohe Feste. Wer kommt dabei nicht umhin an Nietzsches Schilderung des Dionysosfestes in der Geburt der Tragödie zu denken? Solch eine Sonnenwendfeier entspricht voll und ganz den Vorstellungen von Festkultur eines Eugen Diederichs. Keiner der Anwesenden kann sich dem berauschenden Treiben entziehen. Ästhetische Darbietungen der Teilnehmenden und die Elemente der Natur bilden eine große Harmonie, in der alles zusammenfließt und überzuschäumen droht bis die Wogen sich wieder glätten und Ruhe und Gelassenheit einkehrt.
Dies war 1911. Drei Jahre später bricht in das gemeinschaftliche Leben der Krieg. Viele Sera-Männer werden frohen Mutes zu den Waffen greifen. Doch von den Schlachtfeldern fern der Heimat wird so mancher nicht wieder heimkehren. Der junge, lebensfrohe Bund wird zerfallen. Heute erinnert uns der Sera-Stein auf dem Hohen Lehden an die Gefallenen und die einstmals so wertvolle Zeit dieser jungen Menschen. Er trägt die Inschrift:

In unsere Spiele brach der Krieg.
Ihr Edelsten seid hingemäht als Opfer. Wem?
Wir wissen’s nicht.
Der Kranz des Fests mit Kränzen nicht des Siegs vertauscht.
Freunde im Grab, Ihr seid Statthalter unseres Todes.
Statthalter Eurer Kraft sind wir im Licht geblieben
und Euer Wille wird in unserm Bauwerk sein.


Literaturhinweise:

Bias-Engels, Siegrid: Zwischen Wandervogel und Wissenschaft. Zur Geschichte von Jugendbewegung und Studentenschaft 1896-1920. Köln: Verlag Wissen und Politik 1988. S. 126-132. (=Ed. AdJB Bd. 4)

Brügmann, Heinrich Gerhard: Karl Brügmann und der Freideutsche Sera-Kreis. Diss. Dortmund 1965.

Hübinger, Gangolf (Hrsg.): Versammlungsort moderner Geister. Der Eugen-Diederichs Verlag – Aufbruch ins Jahrhundert der Extreme. München: Diederichs 1996.

Oschilewski, Walther G.: Eugen Diederichs und sein Werk. Jena: Diederichs 1936.

Ulbricht, Justus U. und Meike G. Werner (Hrsg.): Romantik, Revolution und Reform. Der Eugen Diederichs Verlag im Epochenkontext 1900-1949. Göttingen: Wallstein 1999.

mardi, 06 avril 2010

La corrispondenza tra Julius Evola e Gottfried Benn

La corrispondenza tra Julius Evola e Gottfried Benn

Autore: Gianfranco de Turris

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

benn_mikroskop_dla.jpg L’accusa più scontata che l’intellighenzia ufficiale lancia contro Julius Evola è quella di essere un “nazista”, più che di essere stato (come innumerevoli altri uomini di cultura italiani) un “fascista”. Accusa ovvia e prevedibile, ma superficiale, che si basa su alcune apparenze: il suo retroterra culturale che si rifaceva ad una certa filosofia tedesca (a partire da Nietzsche); il suo essere caratterialmente più “tedesco” che “italiano, il suo interessamento tra le due guerre per far conoscere nel nostro Paese una certa cultura di lingua tedesce (da Bachofen a Spengler a Meyrink); i suoi contatti con la Germania del Terzo Reich; il suo aver ricordato come avesse conosciuto Himmler, visitato ai castelli dell’Ordine, tenuto conferenze in ambienti diversi come l’Herrenklub da un lato e le SS dall’altro; l’aver scritto articoli sulla politica estera, interna, culturale ed economica della Germania nazionalsocialista e sulle stesse SS (articoli di cui si ricordano gli eventuali apprezzamenti ma non le innumerevoli riserve critiche); e così via. Da tutto questo sfondo gli orecchianti derivano l’etichetta appunto di “nazista”: raramente si va alle fonti e si leggono nel loro complesso, a partire almeno dal 1930, con articoli e saggi su “Vita Nova” e “Nuova Antologia”, sino agli interventi su “Il Regime Fascista”, “Lo Stato” e “La Vita Italiana” del maggio-luglio 1943.

Visione aristocratica

Julius Evola non fu né “fascista” né “antifascista” (come già scriveva polemicamente sul suo quindicinale “La Torre” all’inizio del 1930), e di conseguenza non fu poi né “nazista” né “antinazista”: fu allora un incerto, un attendista, un ipocrista, un – come si suol dire – “pesce in barile”? No: del fascismo, e quindi del nazismo, accettò quelle idee, tesi, posizioni, atteggiamenti, scelte pratiche che si accordavano con quelle di una Destra Tradizionale e, poi, di quella che è stata definita la Rivoluzione Conservatrice tedesca. Una visione all’epoca ghibellina, imperiale, aristocratica che – se pur “utopica” – lo allontanava di certo dalla Weltanschauung populista “democratica” e “plebea” del fascismo ma soprattutto del nazismo, il cui materialismo biologico gli era del tutto insopportabile. Non si tratta di giustificazioni a posteriori, come qualcuno ha malignamente pensato leggendo le pagine de Il cammino del cinabro (1963), dato che Evola non è quello che oggi si suol dire un “pentito”: non ha mai rinnegato o respinto nulla del suo passato; anche se ha rettificato e preso le distanze da alcune sue posizioni giovanili (tutti dimenticano quel che scrisse circa Imperialismo pagano del 1928: “Nel libro, in quanto seguiva – debbo riconoscerlo – lo slancio di un pensiero radicalistico facente uso di uno stile violento, si univa ad una giovanile mancanza di misura e di senso politico e ad una utopica incoscienza dello stato di fatto”: non “pentimento” bensì logica maturazione di un uomo di pensiero). E che non si tratti di giustificazioni, lo stanno a dimostrare i documenti che nel corso degli anni, dopo la sua morte nel 1974, vengono lentamente alla luce dagli archivi pubblici e privati italiani e tedeschi. Da essi emerge un Julius Evola tutt’altro che “organico al regime” come addirittura si è scritto, ma nemmeno tanto marginale come si credeva: un saggista, giornalista, polemista, conferenziere che proseguì tra alti e bassi e che, dopo la crisi del 1930 con la chiusura de “La Torre” e la sua emarginazione, accettò di avvicinarsi a personaggi come Giovanni Preziosi, Roberto Farinacci, Italo Balbo, cioè si potrebbe dire i fascisti più “rivoluzionari” e “intransigenti”, per poter esprimere le proprie idee critiche al riparo di quelle nicchie, agendo come una specie di “quinta colonna” tradizionalista per tentare l’utopica impresa di “rettificare” in quella direzione il Regime: e così iniziò a scrivere a partire dal marzo 1931 su “La Vita Italiana”, dal gennaio 1933 su “Il Corriere Padano” e “Il Regine Fascista”, e quindi – uscito dal “ghetto” dei caduti in disgrazia – dall’aprile 1933 su “La Rassegna Italiana”, dal febbraio 1934 su l’autorevole “Lo Stato” e sul “Roma”, dal marzo 1934 su “Bibliografia Fascista”.

Sorvegliato speciale

Nonostante ciò Evola venne costantemente sorvegliato dalla polizia politica sia in Italia che all’estero: la corrispondenza controllata, gli amici che frequentava identificati (anche le amiche), le sue affermazioni in confidenza riferite, varie volte gli venne tolto il passaporto per le cose assai poco ortodosse che andava a dire sul fascismo e nazismo nelle sue conferenze in Germania e Austria. Come risulta dai documenti ormai pubblicati dei Ministeri degli Esteri e dell’Interno del Reich e da quelli provenienti dall’Ahnenerbe, era appena tollerato: non era un vero nemico, ma le sue idee non venivano apprezzate dai vertici nazionalsocialisti, dato che era considerato un “romano reazionario” che aspirava a far “sollevare l’aristocrazia” e non accettava molto il riferimento tedesco a “sangue e suolo”.

Un’adesione molto critica, dunque, quella di Julius Evola tale da non poterlo semplicisticamente definire né un “fascista”, né un “nazista” di pieno diritto. Il suo punto di riferimento era invece la Konservative Revolution ed i suoi esponenti dell’epoca. Sentiamo le sue stesse parole tratte da Il cammino del cinabro: “Già l’edizione tedesca del mio Imperialismo pagano, dove le idee di base erano state staccate dai riferimenti italiani, aveva fatto conoscere il mio nome in Germania negli ambienti ora indicati. Nel 1934 feci il mio primo viaggio nel nord, per tenere una conferenza in una università di Berlino, una seconda conferenza a Brema nel quadro di un convegno internazionale di studi nordici (il secondo Nordisches Thing, promosso da Roselius) e, cosa più importante di tutto, un discorso per un gruppo ristretto dell’Herrenklub di Berlino, il circolo della nobiltà tedesca conservatrice la cui parte di rilievo nella politica tedesca più recente è ben nota. Qui trovai il mio ambiente naturale. Da allora, si stabilì una cordiale e feconda amicizia fra me e il presidente del circolo, barone Heinrich von Gleichen. Le idee da me difese trovarono un suolo adatto per essere comprese e valutate. E quella fu anche la base per una mia attività in Germania, in seguito ad una convergenza di interessi e finalità”.

Altri contatti e collegamenti in quest’area conservatrice furono con il filosofo austriaco Othmar Spann e il principe Karl Anton Rohan, sulla cui “Europaische Revue” Evola aveva esordito sin dal 1932 e su cui continuò a pubblicare sino al 1943. Si tenga conto dell’anno. Il 1934 fu importante: dal 2 febbraio usciva il quotidiano di Cremona “Il Regime Fascista” una pagina quindicinale intitolata con stile tipicamente evoliano “Diorama Filosofico. Problemi dello spirito nell’etica fascista”, pubblicato con varia periodicità e interruzioni sino al 18 luglio 1943.

Mancano ancora studi complessivi su una iniziativa che fu unica nel Ventennio come intenti e complessità: un vero e proprio progetto culturale con cui Julius Evola intendeva esporre costruttivamente e criticamente il punto di vista della Destra tradizionale e conservatrice rispetto al fascismo. Su quella pagina scrissero molti autorevoli esponenti della cultura europea di tale tendenza: italiani, ma anche tedeschi, austriaci, francesi, inglesi. Fra i tedeschi anche il medico e poeta Gottfried Benn, con cui Evola era in contatto epistolare a quanto pare sin dal 1930.

Nella prima metà del 1934 uscì anche l’opera principale che Julius Evola aveva scritto – incredibilmente e per l’età e per l’attività che in quel momento stava svolgendo – fra il 1930 e il 1932: Rivolta contro il mondo moderno presso Hoepli; e venne effettuato quel viaggio in Germania ricordato nell’autobiografia. Durante la tappa berlinese vi fu il primo incontro diretto con Benn: molti erano i punti in comune fra il medico-scrittore, che era di dieci anni più vecchio di Evola (era nato nel 1886 e sarebbe morto nel 1956), e quest’ultimo. Di Benn si tende og gi a mettere in risalto il suo aspetto nichilista, ateo e astratto dagli aspetti più orribili della realtà umana, e si tende a dimenticare il suo apporto alla Rivoluzione Conservatrice tedesca. Sta di fatto che il contatto fra Evola e Benn ad una certa comunanza di idee portò ad un famoso saggio-recensione alla traduzione tedesca di Rivolta che apparve sul fascicolo del marzo 1935 della rivista «Die Literatur» di Stoccarda. È una specie di “canto del cigno” in cui Benn espone le sue idee e concorda con la «visione del mondo» evoliana: infatti, quello fu “il suo ultimo testo in prosa pubblicato sotto il Terzo Reich”, perché in seguito Rosenberg e Goebbels gli vietarono di scrivere alcunché. Recensione di profonda analisi di cui Evola stesso riconosceva l’importanza e volle porre in appendice alla sua raccolta di saggi L’arco e la clava (Scheiwiller, 1968), mentre adesso sarà posta in appendice alla nuova edizione di Rivolta che uscirà entro il 1998. Egli stesso amava ricordare soprattutto una frase: “Un ‘opera, la cui importanza eccezionale apparirà chiara negli anni che vengono. Chi la legge, si sentirà trasformato e guarderà l’Europa con un sguardo nuovo”.

“Rivolta” in Germania

Ora a confermare e precisare i rapporti Evola-Benn vi sono tre lettere del primo al secondo che sono state rintracciate da Francesco Tedeschi, studioso soprattutto dell’Evola artista, nello Schiller-Nationalmuseum Deutsches Literaturarchiv (Handschriften Abteilung) di Marbach, e che qui si pubblicano grazie alla sua fattiva collaborazione e al suo consenso: due manoscritte sono del 30 luglio e del 9 agosto 1934, una dattiloscritta del 13 settembre 1955 e se ne dà la traduzione integrale dovuta a Quirino Principe. Dai primi due scritti emergono alcuni fatti noti ed un altro assolutamente nuovo: i fatti noti sono che Benn ed Evola già si conoscevano almeno per lettera (“Ella ha ripetutamente mostrato un cordiale interesse per le mie fatiche”: 20 luglio), che sono effettivamente incontrati nel corso del viaggio evoliano in Germania (“Le sarei molto obbligato se ella mi offrisse le possibilità di punti di vista e di una più lunga conversazione tra noi due”: 9 agosto), che esisteva un reciproco apprezzamento su una medesima Weltanschauung “conservatrice” o “tradizionale” (“l’assoluta competenza che a mio giudizio Ella possiede su questi argomenti e la Sua grandissima conoscenza e intelligenza delle tradizioni cui io mi ricollego”: 20 luglio), che entrambi non si riconoscevano nel nazismo da poco salito al potere (“sono sempre più convinto che a chi voglia difendere e realizzare senza compromessi di sorte una tradizione spirituale e aristocratica non rimanga purtroppo, oggi. e nel mondo moderno, alcun margine di spazio; a meno che non si pensi unicamente a un lavoro elitario”: 9 agosto).

Il fatto nuovo e di enorme interesse è nella richiesta avanzata da Evola il 20 luglio, e accettata da Benn nella sua risposta (che non possediamo) del 27 luglio, di “sottoporre a revisione il manoscritto della traduzione” tedesca di Rivolta effettuata da Friedrich Bauer. Il particolare era del tutto sconosciuto ed Evola non ne ha mai parlato anche se esso – la revisione linguistica da parte di un poeta noto e apprezzato come Gottfried Benn – avrebbe potuto dare lustro al suo maggior libro. Non pare ci siano dubbi che tale revisione sia stata effettivamente compiuta, non tanto per i ringraziamenti alla “gentilissima intenzione” (9 agosto), quanto per il fatto che si danno specifici riferimenti sul manoscritto della traduzione stessa presso la casa editrice tedesca e, si può dedurre, per l’ampio interesse manifestato da Benn con la recensione su “Die Literatur” (il libro aveva dunque visto la luce entro il marzo 1935): non solo, allora, adesione alla “visione del mondo” esposta nell’opera, ma anche l’averla considerato come un testo al quale – per averne rivista la traduzione – si è particolarmente vicini. Un nuovo tassello che si aggiunge a comporre il quadro (ancora incompleto) del rapporto fra Julius Evola e la cultura conservatrice tedesca fra le due guerre. Si può quindi immaginare che il contatto epistolare con il medico poeta sia continuato ma per ora non se ne hanno altre tracce.

Ci si sposta allora in avanti di vent’anni, al 1955. La lettera del 13 settembre s’inquadra nel tentativo del filosofo di riprendere i contatti proprio con quegli esponenti anticonformisti che aveva conosciuto negli anni Trenta e Quaranta: si sa che nel 1947 aveva scritto a Guénon, nel 1951 a Eliade e Schmitt, nel 1953 a Jünger, per ricollegarsi ad un discorso intellettuale interrotto dagli eventi bellici, ma anche per proporre traduzioni dei loro libri in italiano, dato che potevano essere utili per una nuova Kulturkampf. Spesso le sue aspettative andarono deluse: non tutti erano rimasti fermi su certe idee, ovvero non ritenevano opportuno il momento per ricordarle, a causa dell’ombra negativa che ancora si stendeva su di loro dopo il 1945. E proprio per i suoi “recenti successi letterari” Benn non intese forse rispondere a quello che era stato un po’ più di un conoscente, dato che non risultavano altre lettere di Evola nel Nationalmuseum: sicché, si deve pensare che gli “antichi rapporti” non vennero ripresi. Certo è che Evola non faceva mistero di essere rimasto lo stesso (“Io sono sempre rimasto sulle mie antiche posizioni, per quanto riguarda l’orientamento intellettuale e i miei interessi prevalenti”) e non è detto che tali precisazioni non siano state controproducenti …

Quel che è invece un po’ singolare è il non ricordare a dovere il tipo di rapporti intercorsi vent’anni prima: non solo l’incontro a Berlino, ma la reciproca conoscenza delle opere e la questione di Rivolta. Il mancato accenno alla revisione della traduzione, ma anche al saggio su “Die Literatur” (poi però fatto pubblicare tredici anni dopo in appendice a L’arco e la clava, come si è già ricordato) è dovuto ad una défaillance mnemonica, o magari ad un senso di opportunità, per non imbarazzare forse il medico-poeta? È anche vero che Benn sarebbe morto solo dieci mesi dopo, il 7 luglio 1956, a settant’anni, e quindi ogni illazione può essere valida. Così come resta aperta ogni ipotesi sul perché Julius Evola, sia nelle lettere private, sia nel la sua autobiografia pubblica, abbia dimenticato molti episodi e personaggi importantissimi nelle vicende della sua vita: e non certo in senso positivo, tali da accrescere l’importanza della sua opera complessiva. Forse normalissimi vuoti di memoria come possono accadere a tutti, ma forse anche quella tendenza “impersonale” a minimizzare un certo suo lavoro conferendo così poca importanza – tanto da non ritenere che certi particolari valessero la pena di essere citati – a determinati momenti della sua vita. Sta di fatto, comunque, che queste lettere a Gottfried Benn riempiono in modo significativo una delle tante lacune che ancora rimangono per ricostruire compiutamente l’intensa vita di Julius Evola.

Note

(1) Il cammino del cinabro, Scheiwiller, Milano, 1972, p.79.
(2) Heidnischer Imperialismus, Armanen Verlag, Lipsia, 1933.
(3) Cioè, da un lato gli esponenti della “tradizione prussiana” e dall’altro la corrente di quegli scrittori, come Moeller van den Bruck, Bluher,
Jünger, von Salomon e così via, che era stata definita Rivoluzione Conservatrice.
(4) Il cammino del cinabro cit., p.137.
(5)
Alain de Benoist, Presenza di Got!fried Benn, in Trasgressioni n.19, 1990, p.84.
(6) Circa la Rivolta scrive
Evola a Giuseppe Laterza in una lettera da Karthaus in Alto Adige del 16 settembre 1931: “Sono in via di ultimarlo, quindi non so precisamente circa la sua lunghezza … “ (cfr. La Biblioteca ermetica, a cura di Alessandro Barbera, Fondazione J. Evola, Roma, 1997, pp.57-58).
(7) Lionel Richard, Nazismo e cultura, Garzanti, Milano, 1982, p.280.
(8) Cito in Il cammino del cinabro cit., p.138.

* * *

Tratto da Percorsi di politica, cultura, economia (6/1998).

lundi, 05 avril 2010

Der Begriff des Politischen aus der Idee des Volkes bei Carl Schmitt

Der Begriff des Politischen aus der Idee des Volkes bei Carl Schmitt

Ex: http://www.eiwatz.de/


cs1.jpgWintergrau liegt auf der Heimat. Eisig fegen frostige Stürme über kahle Felder, darüber ziehen Krähenschwärme hin. Am Horizont versinkt ein matter Sonnenball ins Grau das über die Welt gekommen ist mit dem Fall der letzten Blätter - von ferne kündet Trommelschlag: SCHWERTZEIT bricht an!



Die westliche Welt erwachte vor kurzem aus ihrem selbstgefällig gepflegten Konsumtraum einer befriedeten Zivilisation. Im Herzen des globalen Traumes vom weltweiten Amerika fielen symbolträchtige Bauten in Asche. Amerika kann auf diese Provokation nicht anders als mit Krieg reagieren, da seine Vormachtstellung in der Welt in Frage gestellt wurde. Es herrscht Krieg – doch wo steht der Feind? Dies ist eine Frage, die man speziell in Deutschland sich abgewöhnen wollte zu stellen. Wir sind doch alles friedliebende Menschen! Und nun sollen deutsche Soldaten in einem amerikanischen Welt-Bereinigungskrieg mitmarschieren? Warum scheint die Regierung keine andere Wahl zu haben, nach dem Nato – „Bündnisfall“? Ist Deutschland nicht souverän? Ist denn der amerikanische Feind wirklich auch unserer? Warum konnten wir den dämmernden Konflikt der Kulturen nicht früher erkennen und beherbergten und beherbergen möglicherweise immer noch Terroristen? Wer ist UNSER Feind? Wo stehen wir – in der Schwertzeit?



Alle diese Fragen haben wir uns in den vergangenen Wochen sicher oft gestellt und sind dabei zu unterschiedlichen Antworten gekommen. Der folgende Text möchte dieser Antwortsuche nachgehen und gleichzeitig den Weg Carl Schmitts (1888 – 1985) aufzeigen. Er war ein konservativer Staatsrechtler - befreundet mit Ernst Jünger, bekannt mit Julius Evola und doch wie viele konservative Revolutionäre – der Versuchung der Macht im Nationalsozialismus erlegen. Ebenso wie andere (Jünger, Benn) ging Schmitt nachdem er im nationalsozialistischen Staat seine Ideale nicht ausreichend verwirklicht sah in die innere Emigration. Im folgenden soll sein Hauptwerk „Der Begriff des Politischen“ vorgestellt werden. In diesem 1932 geschriebenen Buch zeigt sich seine klare Sicht auf die Dinge, an der wir unsere heutige Lage: die Lage unserer Heimat im Kulturkampf zwischen Amerikanismus, Islam und europäischer Selbstbehauptung messen müssen.



Die Herleitung von Bedeutung und Wirkungsweise des Begriffes des Politischen bei Carl Schmitt soll mit einem Zeitzeugnis – nämlich der Rezeption einer früheren Version des Aufsatzes durch Ernst Jünger eingeleitet werden.



„Der Rang eines Geistes wird heute durch sein Verhältnis zur Rüstung bestimmt. Ihnen ist eine besondere kriegstechnische Erfindung gelungen: eine Mine, die lautlos explodiert. Man sieht wie durch Zauberei die Trümmer zusammensinken; und die Zerstörung ist bereits geschehen, ehe sie ruchbar wird.“ (1)



Welcher Art ist diese „lautlose Mine“ die Schmitt erfunden hat und was sinkt dadurch in Trümmer? Eine kurze historische Einordnung des Aufsatzes scheint für ein besseres Verständnis erforderlich zu sein. Der „Begriff des Politischen“ entsteht unter den Nachwehen eines verlorenen Krieges und dem so empfundenen Diktat des Versailler Vertrages. Der Parlamentarismus der Weimarer Republik konnte keine dauerhafte Stabilisierung der innen- und außenpolitischen Lage Deutschlands vermitteln. Wechselnde demokratische Regierungen haben bürgerkriegsähnliche Zustände im Reich (Feldherrenhalle, Kapp-Putsch u.ä.) mit Mühe niederhalten können und die Außenpolitik Deutschlands reibt sich, zwischen der innenpolitischen Forderungen nach dem Ende der Reparationsleistungen an die Siegermächte und dem staatlichen Bestreben nach Rückkehr in die Gemeinschaft westlicher Demokratien (Völkerbund), auf. Die Weltwirtschaftskrise schließlich verstärkt die subjektive Unerträglichkeit der politischen Lage für Deutschland zusätzlich. In diesem Klima gedeiht die Konservative Revolution – eine Denkströmung zu der sowohl Ernst Jünger als auch Carl Schmitt gerechnet werden. Als gemeinsamer Nenner jener Strömung kann ihr Charakter als Antithese zu den Ideen von 1789 konstatiert werden.(2) In plakativ - antipodischen Begriffspaaren zusammengestellt liest sich eine solche konservative „Weltanschauung“ ungefähr so: Verpflichtung des Einzelnen vor der Freiheit; Hierarchie vor Gleichheit; Volkstreue vor (internationaler) Brüderlichkeit. Schmitt´s lautlose Mine ist seine klare Formulierung der Forderung „zurück zum starken Staat“ und ihrer Begründung, die eine krisengeschüttelte pazifistisch - liberalistische Gedankenwelt zum Einsturz bringt.

Welche Argumente die konservative Revolution gegen Liberalismus und Demokratie ins Feld führt und aus welchen Quellen sich diese Argumente speisen soll im Folgenden aus Schmitt´s Begriff des Politischen herausgearbeitet werden.



Wichtigstes Grundwerkzeug zur Problemanalyse ist für Schmitt die klare, dichotome Begriffsverwendung in Gegensatzpaaren. Besonders prägnant wird dies bei der weiter unten vorzustellenden Freund-Feind Unterscheidung, jedoch ist dieses Vorgehen durch das gesamte Werk erkennbar. Im Vorwort von 1963 leitet Schmitt seinen Politikbegriff vom griechischen polis, der Regierung eines Stadtstaates - her. Dabei handelte es sich um eine Schutz und Sicherungsfunktion nach innen für die Polis – also gewissermaßen um eine Polizeifunktion. Darüber hinaus kam noch eine weitere Aufgabe der Politik zu, nämlich zur Außenpolitik gewendet, Entscheidungsträger über Krieg und Frieden mit anderen (Stadt-)Staaten zu sein.

Für Carl Schmitt stellt somit ein nach innen geschlossener und befriedeter – nach außen souveräner Staat das klassische Staatsziel dar. Souverän ist dabei wer, im Ernstfall – d.h. dem Fall einer Kriegserklärung – entscheidet.



Was aber konstituiert einen Staat? Nach Carl Schmitt setzt der Begriff des Staates den Begriff des Politischen voraus.(3) Eine Definition des Staatsbegriffes läßt sich nur durch eine solche des Politischen erreichen. Beschreiben läßt sich „Staat“ allenfalls als „besonders gearteter Zustand eines Volkes“(4) – nämlich der im Ernstfall entscheidende. Dies führt zurück zum Souveränitätsbegriff, es kann also formuliert werden: Ein Volk befindet sich dann im Zustand (Status) des Staates wenn es souverän, im Ernstfall (Kriegseintritt!), entscheiden kann.



Es deutet sich hier bereits die hohe Bedeutung des Ernstfall - Begriffes für Schmitt an. Der Staat ist Inhaber des legalen Machtmonopols – er kann als alleinige Institution von seinen Bürgern verlangen entgegen ihrem individuellen Selbsterhaltungstrieb für seinen Erhalt ihr Leben zu geben. Als Gegenleistung zu diesem ihm zugebilligten Gewaltmonopol schützt der Staat durch Recht und Polizei die Sicherheit und Ordnung im Innern. Das Paradigma von Schutz und Gehorsam gilt also für die Beziehung zwischen Staat und Bürger als Binnenverhältnis.



Wie aber konstituiert sich das Politische? Wichtig erscheint es festzustellen, daß Schmitt anstatt „Politik“ den etwas umständlicheren Begriff des „Politischen“ gebraucht. Es ist zu unterstellen, daß er seinen Begriff dadurch zum einen gegen den moralisch diskreditierten Politikbegriff seiner Zeit abzugrenzen sucht, aber auch etwas der Politik vorgelagertes, nämlich das Feld des Politischen als Entscheidungsspielraum für (Partei)politik, beschreiben möchte.



Schmitt kritisiert die allgemein unklare Definitionslage für den Begriff des Politischen. Häufig wird er über den staatlichen Machtbegriff hergeleitet was in so fern nicht zulässig ist, als sich Staat und Macht nach Schmitt erst aus dem Vorhandensein des Politischen ergeben.(5)



Ein Begriff des Politischen ist nach Schmitt nur aus einer klaren Definition des Feldes der Politik, wie er es im Gebiet der Erkennung von Freund und Feind sieht, herzuleiten.

Wie das Feld der Moral durch eine dualistische Einteilung in gut und böse letztlich den Moralbegriff definiert (die Unterscheidung dessen was gut und was böse ist = Moral), so wie die Ästhetik sich als Unterscheidung von schön und häßlich definieren läßt, so ist Politik auf das Erkennen von Freund und Feind zurückzuführen und dadurch definiert.



Schmitt verwahrt sich gegen eine zwingende Gleichsetzung der Freund - Feindunterscheidung mit den zur Illustration zitierten anders gelagerten Gebieten (Ästhetik, Moral). Der Feind ist immer bloß politischer Feind – also nicht zugleich „das Häßliche“ und „das Böse“ an sich.

Hinter der Frage: Wie erkennt man den Feind? Verbirgt sich streng genommen die Frage: Wer kann den Fein erkennen? Für Schmitt ist letztlich das V o l k Träger der Feinderkennung. Ein Feind ist hierbei das fremde Subjekt mit einem Konfliktpotential das nicht durch Verträge zu regeln ist. Die am Konflikt Beteiligten (Völker) erkennen, wann das jeweils Fremde ihre eigene Seinsweise bedroht und der Kriegsfall eintritt. Damit ist das Politische als Erkennung von Freund und Feind durch das Volk umschrieben und definiert. Weiterhin läßt sich der Krieg als Fortsetzung der Politik unter Beihilfe anderer Mittel – die sich aus dem Gewaltmonopol des Staates ergeben – verstehen. Hierin folgt Schmitt dem deutschen General Clausewitz, dessen Werk „Vom Kriege“ er auch in anderen eigenen Schriften als Grundlegung seines Begriffshorizontes im Zusammenhang mit zwischenstaatlichen Auseinandersetzungen zitiert.



Wenn auch der Staat als Träger eines Volkswillens legitimiert ist, bleiben dennoch offene Fragen: Wie definiert sich in diesem Zusammenhang das „Volk“? Was kann die Seinsweise eines Volkes bedrohen? Gibt es auch „innere Feinde“ des Volkes?



Die Problematik des Volksbegriffes wird von Schmitt im „Begriff des Politischen“ nicht diskutiert sondern das Volk als monolithisches Willensträgergebilde als vorausgesetzt angenommen. Da Volkszugehörigkeit in Deutschland über Blutsverwandtschaft konstituiert ist könnte also eine Bedrohung der Seinsweise des deutschen Volkes nur über Genozidabsichten oder Aufweichung der Blutsverwandtschaft von „innen her“ geschehen.



Wie manifestiert sich das Politische nun im Staat und in welchen Relationen stehen beide Begriffe zueinander? Prinzipiell erkennt Schmitt zwei unterschiedliche Zuordnungsweisen von Staat und Politischem.

Der Staat ist dann mit dem Politischen identisch, wenn er gegenüber nichtpolitischen Gruppen (Assoziationen der Gesellschaft) das Monopol am Politischen, also der Freund –Feinddefinition, hat. Der Staat ist dann nicht mehr mit dem Politischen identisch, wenn Staat und Gesellschaft sich durchdringen und nicht - staatliche Kräfte sich das Politische aneignen. In der Demokratie sieht Schmitt diese Differenz zwischen Staat und Politischem unter anderem dadurch gegeben, daß an sich politisch „neutrale“ Gebiete wie Religion, Wirtschaft und Bildung zunehmend politisiert werden – und daher Gegenstand einer eigenen Kirchenpolitik, Wirtschafts- und Bildungspolitik werden müssen. Dieser Prozess wurde dadurch in Gang gesetzt, daß gesellschaftliche Gruppen dem Staat gegenüber Definitionsmacht über das nach Schmitt „feindliche“ erhielten, indem sie selbst für den Bestand des nach innen befriedeten Staates problematisch wurden. Eine Sozialpolitik war so zum Beispiel für den Staat nicht notwendig, solange die Sozialen Problemlagen nicht in Interessengemeinschaften massiv für die innere Sicherheit bedrohlich wurden. In Folge dieser Entwicklungen (beispielsweise der Reaktionen des Kaiserreiches unter Bismarck auf die Sozialisten mit „Zuckerbrot und Peitsche“ die den Aufbau von Gewerkschaft und Arbeiterparteien doch nicht verhinderten) kam es zu einer zunehmenden Vermischung der Aufgabenverteilung zwischen Staat und Gesellschaft. Die Zunehmende Emanzipation der gesellschaftlichen Gruppen und die Verteilung von Staatsaufgaben und Entscheidungsmacht von oben nach unten entpolitisierten den Staat. Die Freund - Feinderkennung war nicht mehr ohne weiteres möglich. Das beruht zum einen darauf, daß der Feind nicht mehr als solcher bezeichnet werden darf, was Schmitt dem Liberalismus zuschreibt der Feinde zu „Diskussionsgegnern“ verharmlost – zum anderen ist dies sicher auch auf eine Wandlung des Volkes zurückzuführen, dessen postulierte monolithische Beschaffenheit und Fähigkeit zur Feinderkenntnis durch vielfältige Binnendifferenzierung in Interessengemeinschaften verloren geht. Das Politische verliert damit seine Manifestationsmöglichkeit (den klar definierten Staat), sein Subjekt (das Volk) und seinen Gegenstand (den Feind).



Als Ursache für diese Entwicklung gibt Schmitt wie oben erwähnt den Liberalismus als Ergebnis der 1789er französischen Revolution an, womit übrigens ein Brückenschlag zur konservativen Revolution in Deutschland gelungen ist.



Welche Folgen aber hat nach Carl Schmitt die Aufweichung des Politischen in der liberalen Demokratie?

Im wesentlichen führt ein Weniger an Staat und ein Mehr an Demokratie zum Verlust von Weitsicht auf das Tatsächliche.



Wenn innenpolitische Gegensätze das Staatsganze mehr definieren als außenpolitische Gemeinsamkeiten der Bürger so ist ein Bürgerkrieg wahrscheinlicher als ein Völkerkrieg. Diese Lähmung des Staates macht ihn gewissermaßen blind für eine Bedrohung von außen. Dabei verliert der Staat zusätzlich an Souveränität. Wir erinnern uns, dass Souverän ist, wer im Ernstfall entscheidet. Wenn Gewerkschaften zum Beispiel so erstarken, daß sie durch Generalstreik den Kriegseintritt eines Staates verhindern könnten, dann wäre nicht mehr der Staat souverän sondern jene Gewerkschaften. Die Entwicklung zum Pluralismus degradiert den Staat zu einer Assoziation der Gesellschaft unter vielen anderen. Als aktuelles Beispiel sei an den Konflikt im „Wohlfahrtsstaat“ BRD erinnert, der zwar einerseits die soziale Mindestabsicherung aller Bürger garantieren soll, aber andererseits keinen Kriegsdienst für alle fordern kann. Dadurch wird aber nicht nur seine politische Entscheidungsfähigkeit verringert, sondern das Politische „pluralistisch“ auf viele untereinander wiederstreitende Interessenträger verteilt. Das Ganze, der Staat als Status eines Volkes in einem Territorium, wird dadurch geschwächt und angreifbar. Das Volk verzichtet nach Schmitt in einer solchen Situation auf seine politische Existenz: es kann und will keinen Feind mehr erkennen.



Wo sieht Schmitt einen Lösungsansatz?

Es ist dies bereits aus dem Eingangszitat von Ernst Jünger angesprochen worden: Der Rang des Geistes wird (in jener Zeit, in diesen Kreisen) aus seiner Einstellung zur Rüstung ermittelt. Rüstung zum Kriege als formende Kraft für das Politische. Man kann mit Schmitt die Hypothese aufstellen: Wenn das Volk einen Feind erkennen würde der seine Seinsweise bedroht erwüchse daraus das Politische, welches den Staat aus allen demokratischen und liberalen Aufweichungen seiner Macht erstarken läßt. Tatsächliche Phänomene der Kriegsbegeisterung 1914 (Kaiser Wilhelm: „Ich kenne keine Parteien mehr, ich kenne nur noch Deutsche“) sind manifest.

Was Schmitt als Ausweg aus der Gefährdung von Staat und damit Volk sieht, ist der Krieg nicht aus rein moralischen, religiösen oder ökonomischen Gründen, sondern ein Krieg gegen den „echten“ Feind des Volkes.(6)



Ein Blick auf die größere Bühne: In welchem geistesgeschichtlichen Horizont stehen die Schmitt´schen Begriffe von Staat und Politik?

Der Staat ist in seinem Denken dem Individuum ganz deutlich vorgeordnet. Erst im Staat wird ein Volk souverän, erst durch den Staat ist der Einzelne in Sicherheit und Ordnung aufgehoben. Nur der Staat kann vom Einzelnen alles verlagen – nämlich seinen Tod. Diese Staatsidee verdient es aber vom Einzelnen nur dann verteidigt zu werden, wenn er sich sicher sein kann, daß ein geschlossener Volkswille sie trägt. Dann erst handelt der Einzelne auch in seinem eigenen Interesse, wenn er dem Volke dient.



Woher nimmt aber der Staat die Legitimation seiner Macht? Oft findet man bei Schmitt die Idee eines streng hierarchisch gegliederten Herrschaftsmodells. Vorbilder finden sich dafür im Katholizismus und dem mittelalterlichen traditionalen Kaiserreich. Man kann übrigens noch weiter zurückgehen und darin Elemente der traditionalen Ausrichtung der Menschen auf einen Pol hin (Schmitt kritisiert die pluralistische Staatstheorie dafür, daß sie kein „Zentrum“ habe) erkennen. Die Idee einer allgemeinen solaren- bzw. polaren Urreligion die Regierungsform und Ordnung der indoeuropäischen Völker gestiftet und bestimmt hätte findet sich u.a. bei Julius Evola, einem italienischen „Religionsphilosophen“ und Grenzwissenschaftler, mit dem Carl Schmitt zwar erst 1937 persönlichen Kontakt hatte(7), der aber bereits vor seinem 1934 erschienenen Buch „Rivolta Contro Il Mondo Moderno“(Revolte gegen die moderne Welt) ähnliche Argumentationslinien verfolgt und im Katholizismus nur noch einen schwachen Wiederhall älterer hyperboreisch - atlantischer Geist - Königtümer erkennt. Im Rahmen dieses Essays kann auf diese Hintergründe jedoch nicht im erforderlichen Umfang eingegangen werden.



Abschließend sei nochmals auf die Rolle des Volksbegriffes bei Schmitt hingewiesen sowie die Bedrohung der „Seinsweise“ eines Volkes. Beide sind einem organisch - mythischen Verständnis verpflichtet. Das deutsche Volk als organische Einheit ist heute aber nicht mehr ohne weiteres erkennbar. Die Tatsache, daß über Krieg und Frieden heute in einer Weise abgestimmt wird, die nicht mit der wirklichen Mehrheitsmeinung (Volkswillen!) übereinstimmt, zeigt wie wenig souverän (unabhängig) der deutsche Staat heute ist. Warum ist das so?



Der faktische Partikularismus der Einzel- und Gruppeninteressen, letztlich die moderne Parteiverdrossenheit und zunehmende Verlagerung innergesellschaftlicher Konflikte von Auseinandersetzungen zwischen Interessengruppen zu Verhandlungen Einzelner vor den Gerichten entsolidarisiert das Volk: keiner vertraut mehr dem anderen. Der zunehmende Neoliberalismus marginalisiert den Staat tatsächlich im Sinne Schmitts zum Fürsorger der sozial Schwachen, zum Dienstleister, zum Handlanger wirtschaftlicher Verbände und demontiert damit seine Macht und sein Ansehen bei jenen, die von seinen Leistungen noch profitieren. Seine Eingebundenheit in vielfältige internationale Verpflichtungen und Organisationen (NATO, EU, WTO usw.) nehmen ihm Souveränität. Damit wandelt sich der starke Staat im Zeitalter der Globalisierung unter Abgabe von Entscheidungsmacht zu einem durch Rechtsnormen steuernden Akteur auf einer zunehmend unübersichtlicheren Bühne des Dramas der Gesellschaft. Die Souveränität verteilt sich heute auf mehr und auf andere Schultern als dies Schmitt vor Augen hatten. Dennoch verschwinden weder sie noch das Politische aus der Welt. Die Proteste der Anti - Globalisierungsbewegung und die Anschläge des islamistischen Terrors deuten an, wohin sich die Grenzen der Erkenntnis von Freund und Feind heute verschoben haben.



Zusammenfassend lässt sich feststellen, daß ohne eine ideelle Wiedergeburt des Volkes aus seinen besten Kräften keine Souveränität und damit kein echter Staat mehr möglich sein wird. Wir scheinen unserem Schicksal, das von fragwürdigen Akteuren auf einer unübersichtlichen Bühne internationaler Verbindungen inszeniert wird, solange ausgeliefert zu sein, wie wir nicht jenen Volksgedanken in uns zum Volkswillen nach außen wenden. In der aktuellen Lage können wir uns ins Glied einreihen und Amerika im Ausland verteidigen – wir können aber auch das Schwert für die Existenz unseres Volkes aufnehmen und standhaft bleiben – in der Schwertzeit.


:RG:




dimanche, 04 avril 2010

Evola e la "notte dei lunghi coltelli"

Evola e la ”notte dei lunghi coltelli”

     

di: Luigi Carlo Schiavone

Ex: http://www.rinascita.eu/

evola.jpgIn un articolo del marzo 1935 dal titolo “Il nazismo sulla via di Mosca?” apparso sul quotidiano “Lo Stato”, Julius Evola, allora umile pensatore ai margini del fascismo italiano, prendendo spunto dalle vicende occorse il 30 giugno del 1934 in Germania storicamente note come “Notte dei lunghi coltelli” e cioè la decapitazione sanguinosa, da parte della “destra” hitleriana, delle S.A., le Squadre di Assalto di Roehm e di Strasser che volevano – conquistato il potere – che la rivoluzione nazionalsocialista mettesse in opera il programma sociale, la cosiddetta “seconda rivoluzione” - muove una profonda critica alle posizioni espresse da Carl Dryssen nella sua opera “Fascismo nazionalsocialismo, prussianesimo”, considerato da Evola come il testo guida delle volontà dei rivoluzionari delle SA, facenti capo ad Ernst Röhm, nel quale si rintracciava la linea che essi volevano imporre al movimento nazionalsocialista.
Dryssen, partendo da considerazioni di carattere prettamente politico- economico, delinea due mondi contrapposti, l’Oriente e l’Occidente, che, oltre a risultar divisi da un punto di vista ideologico, trovano in Dryssen anche una frontiera naturale rappresentata dalla linea del Reno.
Il mondo dell’ “Occidente”, in cui Dryssen inquadrava gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna, è identificato come la patria del liberalismo, della democrazia, dell’internazionalismo e del capitalismo, fondamenta del libero commercio e dell’imperialismo finanziario. Un mondo in cui, secondo Dryssen, vigevano due principi: quello dell’individualismo che ne regolava i rapporti in ambito interno e quello dell’imperialismo su cui venivano fondati i rapporti verso l’esterno a servizio di un liberalismo “ipocrita”, generatore di un’azione egemonica o distruttrice a danno di altri popoli.
Radicalmente opposti risultavano essere, nella visione del Dryssen, i tratti caratterizzanti il mondo orientale. Nell’ “Oriente”, identificato territorialmente nella Germania, vigeva un diverso tipo di Stato caratterizzato da un ampio spirito sociale ed essenzialmente agrario sorretto da un’economia di consumo fondata, principalmente, sulla relazione del “Blut und Boden” (sangue e suolo); un’impostazione, questa, totalmente diversa dall’economia imperialistica ed internazionalistica tipica dello Stato Occidentale.
È in forza di suddette considerazioni che Dryssen fornisce una versione della prima guerra mondiale vista, dall’autore, come un’aggressione dell’Occidente ai danni dell’Oriente dettata da una volontà individualista-capitalistica di piegare l’unica parte d’Europa che ancora le resisteva. Dal caos ideologico scaturito nel dopoguerra, inoltre, Dryssen vede il sorgere di due visioni contrapposte che identifica nella corrente riformistica-romana, incarnatasi nel fascismo, e nella corrente germanico-rivoluzionaria, propria del movimento nazionalsocialista.
Secondo Dryssen, infatti, il movimento fascista, sebbene caratterizzato da originari tratti rivoluzionari e socialistici, non avrebbe avuto la forza di travolgere l’antico sistema di marca romana, base del sistema occidentale, ma vi avrebbe apportato solo delle modeste correzioni identificabili nell’instaurazione di un “capitalismo autoritario” sottoposto al controllo dello Stato, evitando così la rivoluzione. Un’altra motivazione, caratterizzante la volontà del movimento fascista di non rivoluzionare ma solo di riformare l’antico sistema, è da trovarsi, secondo l’autore tedesco, nel mantenimento dell’imperialismo. Questa nuova Roma, quindi, considerata da Dryssen come “salvatrice del capitalismo occidentale” viene avvertita come un nuovo ostacolo per la tradizione anticapitalista e socialistica tedesca; compito del nazionalsocialismo, quindi, era quello di dar vita ad una rivoluzione “social prussiana” che, rifacendosi al motto di luterana memoria, Los von Rom! (via da Roma!) avrebbe tutelato la tradizione germanica dalla minaccia occidentale e capitalistica e da Roma, ultimo baluardo di un mondo ormai agonizzante. Ad Adolf Hitler, innalzato da Dryssen a novello Vidukind, (il duce sassone che si oppose a Carlo Magno) il compito di orientare la Germania verso il socialismo nazionale e improntarla su una visione “eroica” e non prettamente economica dell’esistenza. […]
In merito al fascismo, invece, sono altri gli elementi che Evola cita per smantellare l’impostazione di Dryssen: dall’ “educazione guerriera” impartita alle nuove generazioni, ai processi di agrarizzazione e alla lotta contro l’urbanizzazione oltre alla concezione del diritto di proprietà del fascismo, che trasforma il detto, di proudhoniana memoria, “la proprietà è un furto” in la “proprietà è un dovere”.
La proprietà in Evola assume, quindi, una caratterizzazione differente rispetto alla considerazione che se ne ha nella visione “occidentale” data da Dryssen; considerata come una delle condizioni materiali imprescindibili per la dignità e l’autonomia della persona è opportunamente ridimensionata in un sistema, come quello fascista, non asservito al capitalismo e che mira a capovolgere la dipendenza della politica all’economia subordinando nuovamente quest’ultima alla prima in forza di un’idea superiore rappresentata in un primo momento dalla Nazione e successivamente dall’Impero.
Un ulteriore errore da parte di Dryssen, e di alcuni esponenti di spicco dello N.S.D.A.P., è da rintracciarsi, secondo Julius Evola, nell’errata considerazione del binomio individualismo-personalità. Se è lecito, secondo Evola, opporsi all’individualismo, concezione maturata in seno al liberalismo, non alla stessa stregua deve essere considerata la personalità, elemento essenziale per il recupero di buona parte dei valori indoeuropei. Se il socialismo e l’individualismo possono essere considerati come due facce della stessa medaglia in quanto figlie di un’unica decadenza materialistica, antiqualitativa e livellatrice, infatti, diversi sono i tratti tipici del pensiero indoeuropeo miranti alla realizzazione di realtà organiche e gerarchiche che, caratterizzate proprio dall’ideale di personalità libere, virili e differenziate, mirino, ciascuna nel proprio ambito, ad assegnare ad ogni cittadino una propria funzione e una propria dignità. Un ideale, questo, che Evola considera superiore sia al liberalismo che al socialismo, che si è protratto nel tempo approdando dalla comune matrice indoeuropea alla tradizione classica prima e alla tradizione classico-germanica poi, per consolidarsi, infine, nella tradizione romano-germanica medioevale.
Per quel che concerne l’antiromanità professata da Dryssen, essa è da considerarsi, secondo Evola, come diretta emanazione di quel processo di allontanamento della Germania che, come già citato, ebbe inizio con Lutero e che in quel determinato periodo storico favoriva esclusivamente un riposizionamento della stessa a favore della Russia, che a detta dello stesso Dryssen, era l’unica grande potenza ad essersi elevata contro l’Occidente e contro Roma oltre che al capitalismo. L’assenza di reali frontiere spirituali fra l’Elba e gli Urali avrebbe favorito, inoltre, una maggior unione fra il nazionalsocialismo e il bolscevismo. La fusione dell’antico sistema tedesco dell’Almende e del Mir slavo avrebbe finito, secondo Dryssen, per patrocinare una nuova forma di collettivismo che, in Russia come in Germania, sarebbe stato tutelato da uno Stato agrario socializzato ed armato. Nella visione di Dryssen, inoltre, Evola rintraccia un ulteriore parallelismo tra l’ateismo sovietico e la riforma luterana.
L’ateismo sovietico, infatti, mutuerebbe dalla riforma luterana la volontà di battersi contro una religiosità ufficiale, mondanizzata, legata alle ricchezze e romanizzata; solo dalla rivolta, pertanto, sarebbero potute nascere nuove religioni interiori e a favore del popolo al pari degli effetti che Lutero anelava dalla sua riforma.
A favore di suddetta visione, che porterebbe la Germania all’accordo con la Russia, Dryssen evoca più volte, secondo Evola, lo spauracchio dell’imperialismo italiano quasi come se esso fosse una tendenza esclusivamente romana e non riscontrabile presso altri popoli. Dimenticando, quindi, il primo verso dell’inno tedesco (Deutschland Deutschland über alles, über alles in der Welt) e ponendosi negativamente contro l’universalità romana Dryssen, secondo Evola, accettava implicitamente l’internazionalismo bolscevico all’interno del quale, ricorda il filosofo tradizionalista, scarso posto trovavano i concetti di Patria e di Nazione e ancor meno quello di tradizione nel senso più ampio del termine, tutti e tre più volte ripresi dallo stesso Dryssen. […]
Antiromanità, antiaristocrazia, antitradizione, sono gli elementi che si trovano alla base della visione di quanti, secondo Evola, volevano che il Reich volgesse lo sguardo verso la Russia e concludendo il suo articolo auspicava invece che l’Italia fascista tracciasse una propria strada che si trovasse ad egual distanza dall’Occidente delineato da Dryssen che dalla Russia bolscevica.
Che ci si ritrovi maggiormente nelle posizioni di Carl Dryssen o in quelle espresse da Julius Evola, è indubbio lo stupore di fronte a simili analisi volte ad individuare, tramite profonde riflessioni e ricerche, le soluzioni migliori per l’attuazione di piani politici volti a cesellare, come si trattasse di statue antiche, i tratti ed i caratteri di interi popoli. Uno stupore che si fa ancora più grave se si pensa che tali analisi vennero svolte in quell’epoca che tutti additano come la più oscura d’Europa mentre oggi, nell’epoca delle libertà, si è costretti ad assistere ad ignominiosi spettacoli nei quali, oltre ad essere ripetuti costantemente i medesimi mantra salvifici, l’individuo, sempre più asservito alla tecnocrazia di jungeriana memoria, non è più essere da formare ma tifoso da consolidare.

mercredi, 31 mars 2010

F. G. Jünger: la perfeccion de la técnica

friedrich_georg_18253.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1993

FRIEDRICH-GEORG JÜNGER (1898 - 1977)

LA PERFECCIÓN DE LA TÉCNICA

Robert Steuckers
/ [trd. Santiago Rivas]

Nacido el 1 de septiembre de 1989 en Hannover, hermano del celebérrimo escritor alemán Ernst Jünger. Friedrich-Georg Jünger se interesa desde edad muy temprana por la poesía, despertándose en él un fuerte interés por el clasicismo alemán, en un itinerario que atraviesa a Klopstock, Goethe y Hölderin. Gracias a esta inmersión precoz en la obra de Hölderin, Friedrich-Georg Jünger se encapricha por la antigüedad Clásica y percibe la esencia de la helenidad y de la romanidad antiguas como una aproximación a la naturaleza, como una glorificación de la elementaridad, al tiempo que se dota de una visión del hombre que permanecerá inmutable, sobreviviendo a través de los siglos en la psique europea, a veces visible a la luz del día, a veces oculta. La era de la técnica ha apartado a los hombres de esta proximidad vivificante, elevándolo de forma peligrosa por encima de lo elementario. Toda la obra poética de Friedrich-Georg Jünger es una vehemente protesta contra la pretensión mortífera que constituye este alejamiento. Nuestro autor quedará siempre profundamente marcado por los paisajes idílicos de su infancia, una marca que quedará reflejada en su amor incondicional a la Tierra, a la flora y a la fauna (sobre todo a los insectos: fue Friedrich-Georg quien introdujo a su hermano Ernst en el mundo de la entomología), a los seres más elementales de la vida sobre el planeta, al arraigo cultural.

La Primera Guerra Mundial pondrá fin a esta joven inmersión en la naturaleza. Friedrich-Georg se alistará en 1916 como aspirante a oficial. Gravemente herido en el pulmón, en el frente de Somme, en 1917, pasa el resto del conflicto en un hospital de campaña. Tras su convalecencia, se matricula en derecho, obteniendo el título de doctor en 1924. Pero nunca seguirá la carrera de jurista, sino que pronto descubrió su vocación de escritor político dentro del movimiento nacionalista de izquierdas, entre los nacional-revolucionarios y los nacional-bolcheviques, uniéndose más tarde a la figura de Ernst Niekisch, editor de la revista "Widerstand" (Resistencia). Desde esta publicación, así como desde "Arminios" o "Die Kommenden", los hermanos Jünger inauguraron un estilo nuevo que podríamos definir como "del soldado nacionalista", expresado por los jóvenes oficiales recién llegados del frente e incapaces de amoldarse a la vida civil. La experiencia de las trincheras y el fragor de los ataques les demostraron, por medio del sudor y la sangre, que la vida no es un juego inventado por el cerebralismo, sino un bullicio orgánico elemental donde, de hecho, reinan las pulsiones. La política, en su esfera propia, debe asir la temperatura de ese bullicio, escuchar esas pulsiones, navegar por sus meandros para forjar una fuerza siempre joven, nueva, vivificante. Para Friedrich-Georg Jünger, la política debe aprehenderse desde un ángulo cósmico, fuera de todos los "miasmas burgueses, cerebralistas e intelectualizantes". Paralelamente a esta tarea de escritor político y de profeta de este nuevo nacionalismo radicalmente antiburgués, Friedrich-Georg Jünger se sumerge en la obra de Dostoïevski, Kant y los grandes novelistas americanos. Junto a su hermano Ernst, emprende una serie de viajes por los países mediterráneos: Dalmacia, Nápoles, Baleares, Sicilia y las islas del Egeo.

Cuando Hitler accede al poder, el triunfante es un nacionalismo de las masas, no ese nacionalismo absoluto y cósmico que evocaba la pequeña falange (sic) "fuertemente exaltada" que editaba sus textos desde las revistas nacional-revolucionarias. En un poema, "Der Mohn" (La Amapola), Friedrich-Georg Jünger ironiza y describe al nacional-socialismo como "el canto infantil de una embriaguez sin gloria". Como consecuencia de estos versos sarcásticos se ve envuelto en una serie de problemas con la policía, por lo cual abandona Berlín y se instala, junto a Ernst, en Kirchhorst, en la Baja Sajonia.

Retirado de la política después de haber publicado más de un centenar de poemas en la revista de Niekisch -quien ve poco a poco aumentar sobre sí las presiones de la autoridad hasta que por fin es arrestado en 1937-, Friedrich-Georg Jünger se consagra por entero a la creación literaria, publicando en 1936 un ensayo titulado "Über das Komische" y terminando en 1939 la primera versión de su mayor obra filosófica: "Die Perfektion der Technik" (La Perfección de la Técnica). Los primeros borradores de esta obra fueron destruidos en 1942, durante un bombardeo aliado. En 1944, una primera edición, realizada a partir de una serie de nuevos ensayos, es reducida otra vez a cenizas por culpa de un ataque aéreo. Finalmente, el libro aparece en 1946, suscitando un debate en torno a la problemática de la técnica y de la naturaleza, prefigurando, a despecho de su orientación "conservadora", todas las reivindicaciones ecologistas alemanas de los años 60, 70 y 80. Durante la guerra, Friedrich-Georg Jünger publicó poemas y textos sobre la Grecia antigua y sus dioses. Con la aparición de "Die Perfektion der Technik", que conocerá varias ediciones sucesivas, los intereses de Friedrich-Georg se vuelcan hacia las temáticas de la técnica, de la naturaleza, del cálculo, de la mecanización, de la masificación y de la propiedad. Rehuyendo, en "Die Perfektion der Technik", el enunciar sus tesis bajo un esquema clásico, lineal y sistemático; sus argumentaciones aparecen así "en espiral", de forma desordenada, aclarando vuelta a vuelta, capítulo aquí, capítulo allá, tal o cual aspecto de la tecnificación global. Como filigrana, se percibe una crítica a las tesis que sostenía entonces su hermano Ernst en "Der Arbeiter" (El Trabajador), quien aceptaba como inevitables los desenvolvimientos de la técnica moderna. Su posición antitecnicista se acerca a las tesis de Ortega y Gasset en "Meditaciones sobre la Técnica" ( 1939 ), de Henry Miller y de Lewis Munford (quien utiliza el término "megamaquinismo"). En 1949 Friedrich-Georg Jünger publicó una obra de exégesis sobre Nietzsche, donde se interrogaba sobre el sentido de la teoría cíclica del tiempo enunciado por el anacoreta de Sils-Maria. Friedrich-Georg Jünger contesta la utilidad de utilizar y problematizar una concepción cíclica de los tiempos, porque esta utilización y esta problematización acabará por otorgar a los tiempos una forma única, intangible, que, para Nietzsche, está concebida como cíclica. El tiempo cíclico, propio de la Grecia de los orígenes y del pensamiento precristiano, debería ser percibido bajo los ángulos de lo imaginario y no desde la teoría, que obliga a conjugar la naturalidad desde un modelo único de eternidad, y así el instante y el hecho desaparecen bajo los cortes arbitrarios instaurados por el tiempo mecánico, segmentarizados en visiones lineales. La temporalidad cíclica nietzscheana, por sus cortes en ciclos idénticos y repetitivos, conserva -pensaba Friedrich-Georg Jünger- algo de mecánico, de newtoniano, por lo cual, finalmente, no es una temporalidad "griega". El tiempo, para Nietzsche, es un tiempo-policíaco, secuestrado; carece de apoyo, de soporte (Tragend und Haltend). Friedrich-Georg Jünger canta una a-temporalidad que se identifica con la naturaleza más elemental, la "Wildnis", la naturaleza de Pan, el fondo-del-mundo natural intacto, no-mancillado por la mano humana, que es, en última instancia, un acceso a lo divino, al último secreto del mundo. La "Wildnis" -concepto fundamental en el poeta "pagano" que es Friedrich-Georg Jünger- es la matriz de toda la vida, el receptáculo a donde ha de regresar toda la vida.

En 1970, Friedrich-Georg Jünger fundó, junto a Max Llimmelheber, la revista trimestral "Scheidwege", en donde figuraron en la lista de colaboradores los principales representantes de un pensamiento a la vez naturalista y conservador, escéptico sobre todas las formas de planificación técnica. Entre los pensadores situados en esta vertiente conservadora-ecológica que expusieron sus tesis en la publicación podemos recordar los nombres de Jürgen Dahl, Hans Seldmayr, Friederich Wagner, Adolf Portmann, Erwin Chargaff, Walter Heiteler, Wolfgang Häedecke, etc.

Friedrich-Georg Jünger murió en Überlingen, junto a las orillas del lago Constanza, el 20 de julio de 1977.

El germanista americano Anton H. Richter, en la obra que ha consagrado al estudio sobre el pensamiento de Friedich-Georg Jünger, señala cuatro temáticas esenciales en nuestro autor: la antigüedad clásica, la esencia cíclica de la existencia, la técnica y el poder de lo irracional. En sus textos sobre la antigüedad griega, Friedrich-Georg Jünger reflexiona sobre la dicotomía dionisíaca/titánica. Como dionisismo, él engloba lo apolíneo y lo pánico, en un frente unido de fuerzas intactas de organización contra las distorsiones, la fragmentación y la unidimensionalidad del titanismo y el mecanicismo de nuestros tiempos. La atención de Friedrich-Georg Jünger se centra esencialmente sobre los elementos ctónicos y orgánicos de la antigüedad clásica. Desde esta óptica, los motivos recurrentes de sus poemas son la luz, el fuego y el agua. fuerzas elementales a las cuales rinde profundo homenaje. Friedrich-Georg Jünger se burla de la razón calculadora, de su ineficacia fundamental, exaltando, en contrapartida, el poder del vino, de la exuberancia de lo festivo, de lo sublime que anida en la danza y en las fuerzas carnavalescas. La verdadera comprensión de la realidad se alcanza por la intuición de las fuerzas, de los poderes de la naturaleza, de lo ctónico, de lo biológico, de lo somático y de la sangre, que son armas mucho más eficaces que la razón, que el verbo plano y unidimensional, descuartizado, purgado, decapitado, desposeído: de todo lo que hace del hombre moderno un ser de esquemas incompletos. Apolo aporta el orden claro y la serenidad inmutable; Dionisos aporta las fuerzas lúdicas del vino y de las frutas, entendidos como un don, un éxtasis, una embriaguez reveladora, pero nunca una inconsciencia; Pan, guardián de la naturaleza, aporta la fertilidad. Frente a estos donantes generosos y desinteresados, los titanes son los usurpadores, acumuladores de riquezas, guerreros crueles carentes de ética enfrentados a los dioses de la profusión y de la abundancia que, a veces, consiguen matarlos, lacerando sus cuerpos, devorándolos.

Pan es la figura central del panteón personal de Friedrich-Georg Jünger; Pan es el gobernante de la "Wildnis", de la naturaleza primordial que desean arrasar los titanes. Friedrich-Georg Jünger se remite hasta Empédocles, quien enseñaba que el forma un "contiuum" epistemológico con la naturaleza: toda la naturaleza está en el hombre y puede ser descubierta por medio del amor.

Simbolizado por los ríos y las serpientes, el principio de recurrencia, de incesante retorno, por el que todas las cosas alcanzan la "Wildnis" original, es también la vía de retorno hacia esa misma "Wildnis". Friedrich-Georg Jünger canta al tiempo cíclico, diferente del tiempo lineal-unidireccional judeocristiano, segmentado en momentos únicos, irrepetibles, sobre un camino también único que conduce a la Redención. El hombre occidental moderno, alérgico a los imponderables escondrijos en donde se manifiesta la "Wildnis", ha optado por el tiempo continuo y vectorial, haciendo así de su existencia un segmento entre dos eternidades atemporales ( el antes del nacer y el después de la muerte ). Aquí se enfrentan dos tipos humanos: el hombre moderno, impregnado de la visión judeocristiana y lineal del tiempo, y el hombre orgánico, que se reconoce indisolublemente conectado al cosmos y a los ritmos cósmicos.

La Perfección de la Técnica


Denuncia del titanismo mecanicista occidental, esta obra es la cantera en donde se han nutrido todos los pensadores ecologistas contemporáneos para afinar sus críticas. Dividida en dos grandes partes y un excurso, compuesta de una multitud de pequeños capítulos concisos, la obra comienza con una constatación fundamental: la literatura utópica, responsable de la introducción del idealismo técnico en la materia política, no ha hecho sino provocar un desencantamiento de la propia veta utópica. La técnica no resuelve ningún problema existencial del hombre, no aumenta el goce del tiempo, no reduce el trabajo: lo único que hace es desplazar lo manual en provecho de lo "organizativo". La técnica no crea nuevas riquezas; al contrario: condena la condición obrera a un permanente pauperismo físico y moral. El despliegue desencadenado de la técnica está causado por una falta general de la condición humana que la razón se esfuerza inútilmente en rellenar. Pero esta falta no desaparece con la invasión de la técnica, que no es sino un burdo camuflaje, un triste remiendo. La máquina es devoradora, aniquiladora de la "sustancia": su racionalidad es pura ilusión. El economista cree, desde su aprehensión particular de la realidad, que la técnica es generadora de riquezas, pero no parece observarse que su racionalidad cuantitativista no es sino pura y simple apariencia, que la técnica, en su voluntad de perfeccionarse hasta el infinito, no sigue sino a su propia lógica, una lógica que no es económica.

Una de las características del mundo moderno es el conflicto táctico entre el economista y el técnico: el último aspira a determinar los procesos de producción en favor de la rentabilidad, factor que es puramente subjetivo. La técnica, cuando alcanza su más alto grado, conduce a una economía disfuncional. Esta oposición entre la técnica y la economía puede producir estupor en más de un crítico de la unidimensionalidad contemporánea, acostumbrado a meter en el mismo cajón de sastre las hipertrofias técnicas y las económicas. Pero Friedrich-Georg Jünger concibe la economía desde su definición etimológica: como la medida y la norma del "okios", de la morada humana, bien circunscrita en el tiempo y en el espacio. La forma actualmente adoptada por el "okios" procede de una movilización exagerada de los recursos, asimilable a la economía del pillaje y a la razzia ( Raubbau ), de una concepción mezquina del lugar que se ocupa sobre la Tierra, sin consideración por las generaciones pasadas y futuras.

La idea central de Friedrich-Georg Jünger sobre la técnica es la de un automatismo dominado por su propia lógica. Desde el momento que esta lógica se pone en marcha, escapa a sus creadores. El automatismo de la técnica, entonces, se multiplica en función exponencial: las máquinas, "per se", imponen la creación de otras máquinas, hasta alcanzar el automatismo completo, a la vez mecanizado y dinámico, en un tiempo segmentado, un tiempo que no es sino un tiempo muerto. Este tiempo muerto penetra en el tejido orgánico del ser humano y somete al hombre a su particular lógica mortífera. El hombre se ve así desposeído de "su" tiempo interior y biológico, sumido en una adecuación al tiempo inorgánico y muerto de la máquina. La vida se encuentra entonces sumida en un gran automatismo regido por la soberanía absoluta de la técnica, convertida en señora y dueña de sus ciclos y sus ritmos, de su percepción de sí y del mundo exterior. El automatismo generalizado es "la perfección de la técnica", a la cual Friedrich-Georg, pensador organicista, opone la "maduración" ( die Reife ) que sólo pueden alcanzar los seres naturales, sin coerción ni violencia. La mayor característica de la gigantesca organización titánica de la técnica, dominante en la época contemporánea, es la dominación exclusiva que ejercen las determinaciones y deducciones causales, propias de la mentalidad y la lógica técnica. El Estado, en tanto que instancia política, puede adquirir, por el camino de la técnica, un poder ilimitado. Pero esto no es, para el Estado, sino una suerte de pacto con el diablo, pues los principios inherentes a la técnica acabarán por extirpar su sustancia orgánica, reemplazándola por el automatismo técnico puro y duro.

Quien dice automatización total dice organización total, en el sentido de gestión. El trabajo, en la era de la multiplicación exponencial de los autómatas, está organizado hacia la perfección, es decir, hacia la rentabilización total e inmediata, al margen o sin considerar la mano de obra o del útil. La técnica solamente es capaz de valorarse a sí misma, lo que implica automatización a ultranza, lo cual implica a su vez intercambio a ultranza, lo que conduce a la normalización a ultranza, cuya consecuencia es la estandarización a ultranza. Friedrich-Georg Jünger añade el concepto de "partición" (Stückelung), donde las "partes" ya no son "partes", sino "piezas" (Stücke), reducidas a una función de simple aparato, una función inorgánica.

Friedrich-Georg Jünger cita a Marx para denunciar la alienación de este proceso, pero se distancia de él al ver que éste considera el proceso técnico como un "fatum" necesario en el proceso de emancipación de la clase proletaria. El obrero (Arbaiter) es precisamente "obrero" porque está conectado, "volens nolens", al aparato de producción técnico. La condición obrera no depende de la modestia económica ni del rendimiento, sino de esa conexión, independientemente del salario percibido. Esta conexión despersonaliza y hace desaparecer la condición de persona. El obrero es aquel que ha perdido el beneficio interior que le ligaba a su actividad, beneficio que evitaba su intercambiabilidad. La alienación no es problema inducido por la economía, como pensaba Marx, sino por la técnica. La progresión general del automatismo desvaloriza todo trabajo que pueda ser interior y espontáneo en el trabajador, a la par que favorece inevitablemente el proceso de destrucción de la naturaleza, el proceso de "devoración" (Verzehr) de los sustratos (de los recursos ofrecidos por la Madre-Naturaleza, generosa y derrochadora "donatrix"). A causa de esta alienación de orden técnico, el obrero se ve precipitado en un mundo de explotación donde carece de protección. Para beneficiarse de una apariencia de protección, debe crear organizaciones -sindicatos-, pero con el error de que esas organizaciones también están conectadas al aparato técnico. La organización protectora no emancipa, sino que encadena. El obrero se defiende contra la alienación y la "piezación", pero, paradójicamente, acepta el sistema de la automatización total. Marx, Engels y los primeros socialistas percibieron la alienación económica y política, pero estuvieron ciegos ante la alienación técnica, incapaces de comprender el poder destructivo de la máquina. La dialéctica marxista, de hecho, deviene en un mecanicismo estéril al servicio de un socialismo maquinista. El socialista permanece en la misma lógica que gobierna a la automatización total bajo la égida del capitalismo. Pero lo peor es que su triunfo no pondrá fin ( salvo caso de renunciar al marxismo ) a la alienación automatista, sino que será uno de los factores del movimiento de aceleración, de simplificación y de crecimiento técnico. La creación de organizaciones es causa de la génesis de la movilización total, que convierte a todas las cosas en móviles y a todos los lugares en talleres o laboratorios llenos de zumbidos y de agitación incesante. Toda área social tendente a aceptar esta movilización total favorece, quiera o no quiera, la represión: es la puerta abierta a los campos de concentración, a las aglomeraciones, a las deportaciones en masa y a las masacres colectivas. Es el reino del gestor impávido, figura siniestra que puede aparecer bajo mil máscaras. La técnica nunca produce armonía, la máquina no es una diosa dispensadora de bondades. Al contrario, esteriliza los sustratos naturales donados, organiza el pillaje planificado contra la "Wildnis". La máquina es devoradora y antropófaga, debe ser alimentada sin cesar y, ya que acapara más de lo que dona, terminará un día con todas las riquezas de la Tierra. Las enormes fuerzas naturales elementales son desarraigadas por la gigantesca maquinaria y retenidas prisioneras por ella y en ella, lo que no conduce sino a catástrofes explosivas y a la necesidad de una supervivencia constante: otra faceta de la movilización total.

Las masas se imbrican, voluntariamente, en esta automatización total, anulando al mismo tiempo las resistencias aisladas obra de los individuos conscientes. Las masas se dejan llevar por el movimiento trepidante de la automatización hasta tal punto que en caso de avería o paro momentáneo del movimiento lineal hacia la automatización experimentan una sensación de vida que les parece insoportable.

La guerra, también ella, en adelante, estará completamente mecanizada. Los potenciales de destrucción se amplifican hasta el extremo. El reclamo de los uniformes, el valor movilizante de los símbolos, la gloria, se esfuman en la perfección técnica. La guerra solamente podrán ser soportadas por los soldados tremendamente endurecidos y de coraje tenaz, solamente podrán soportarlas los hombres que sean capaces de exterminar la piedad en sus corazones.

La movilidad absoluta que inaugura la automatización total se revuelve contra todo lo que pueda significar duración y estabilidad, en concreto contra la propiedad (Eigentum). Friedrich-Georg Jünger, al meditar esta aseveración, define la propiedad de una manera original y particular. La existencia de las máquinas reposa sobre una concepción exclusivamente temporal, la existencia de la propiedad se debe a una concepción espacial. La propiedad implica limites, definiciones, vallados, muros y paredes, "clausuras" en definitiva. La eliminación de estas delimitaciones es una razón de ser para el colectivismo técnico. La propiedad es sinónimo de un campo de acción limitado, circunscrito, cerrado en un espacio determinado y preciso. Para poder progresar vectorialmente, la automatización necesita hacer saltar los cerrojos de la propiedad, obstáculo para la instalación de sus omnipresentes medios de control, comunicación y conexión. Una humanidad desposeída de toda forma de propiedad no puede escapar a la conexión total. El socialismo, en cuanto que niega la propiedad, en cuanto que rechaza el mundo de las "zonas enclaustradas", facilita precisamente la conexión absoluta, que es sinónimo de la manipulación absoluta. De aquí, se desprende que el poseedor de máquinas no es un propietario; el capitalismo mecanicista socava el orden de las propiedades, caracterizado por la duración y la estabilidad, en preferencia de un dinamismo omnidisolvente. La independencia de la persona es un imposible en esa conexión a los hechos y al modo de pensar propio del instrumentalismo y del organizacionismo técnicos.

Entre sus reflexiones críticas y acerbadas hacia la automatización y hacia la tecnificación a ultranza en los tiempos modernos, Friedrich-Georg Jünger apela a los grandes filósofos de la tradición europea. Descartes inaugura un idealismo que instaura una separación insalvable entre el cuerpo y el espíritu, eliminando el "sistema de influjos psíquicos" que interconectaba a ambos, todo para al final reemplazarlo por una intervención divina puntual que hace de Dios un simple demiurgo-relojero. La "res extensa" de Descartes en un conjunto de cosas muertas, explicable como un conjunto de mecanismos en los cuales el hombre, instrumento del dios-relojero, puede intervenir de forma completamente impune en todo momento. La "res cogitans" se instituye como maestra absoluta de los procesos mecánicos que rigen el Universo. El hombre puede devenir en un dios: en un gran relojero que puede manipular todas las cosas a su gusto y antojo, sin cuidado ni respeto. El cartesianismo da la señal de salida de la explotación tecnicista a ultranza de la Tierra.

BIBLIOGRAFÍA


1) Obras jurídicas, filosóficas o mitológicas, ensayos y aforismos: "Über das Stockwerksegentum", disertación presentada en la facultad de derecho de la Universidad de Leipzig, 3 de mayo de 1924; "Aufmarsch des Nationalismus", 1926; "Der Krieg", 1936; "Über das Komische", 1936; "Griechische Götter", 1943; "Die Titanien", 1944; "Die Perfektion der Technik", 1946; "Griechische Mythen", 1947; "Orient und Okzident", 1948; "Nietzsche", 1949; "Gedanken und Merkzeichen", 1949; "Rythmus und Sprache in deutschen Gedicht", 1952; "Die Spiele", 1953; "Gedanken und Merkzeichen, Zweite Sammlung", 1954; "Sprache und Kalkül", 1956; "Gedächtnis und Erinnerung", 1957; "Sprachen und Denken", 1962; "Die vollkommene Schöpfung", 1969; "Der Arzt und seine Zeit", 1970; "Apollon", en "Nouvelle Ecole" nº 35, invierno 1979.
 
2) Poesía: "Gedichte", 1934; "Der Krieg", 1936; "Der Taurus", 1937; "Der Missouri", 1940; "Der Westwind", 1946; "Die Silberdistelklause", 1947; "Das Weinberghaus", 1947; "Die Perlensschnur", 1947; "Gedischte", 1949; "Iris im Wind", 1952; "Ring der Jahre", 1954; "Schwarzer Fluss und windewisser Wald", 1955; "Es Pocht an der Tür", 1968; "Sämtliche Gedichte", 1974. El poema "Der Mohn" (1934) fue reproducido en la obra "Scheidewege", 1980.
 
3) Obras dramáticas, recitales, novelas, coversaciones, etrevistas y relatos de viajes: "Der verkleidete Theseus. Ein Lustspiel in fünf Aufzügen", 1934; "Briefe aus Mondello", 1943; "Wanderungen auf Rhodos", 1943; "Gespräche", 1948; "Dalmatinische Nacht", 1950; "Grüne Zweige", 1951; "Die Pfauen und andere Erzählungen", 1952; "Der erste Gang", 1954; "Zwei Schwestern", 1956; "Spiegel der Jahre", 1958; "Kreuzwege", 1961; "Wiederkehr", 1965; "Laura und andere Erzählungen", 1970.
 
4) Principales artículos publicados en las revistas nacional-revolucionarias y nacional-bolcheviques: "Das Fiasko der Bünde", en Arminius nº 7; "Die Kampfbünde", "Der Soldat", "Kampf!", "Normannen", en Die Standarte nº 1; "Deutsche Aussenpolitik und Russland", en Arminius nº 7; "Gedenkt Schlageter!", en Arminius nº 8; "Opium fürs Volk", en Arminius nº 9; "Der Pazifismus: Eine grundsätzliche Ausführung", en Arminius nº 11; "Die Gesittung und das soziale Drama", en Die Standarte nº 2; "Des roten Kampffliegers Ende: Manfred von Richthofen zum Gedächtnis", en Der Vormarsch nº 1; "Dreikanter", "Die Schlacht", en Die Vormarsch nº 2; "Chaplin", "Der Fährmann", "Konstruktionen und Parallelen", en Die Vormarsch nº 3; "Bombenschwindel", "Vom Geist des Krieges", en Die Vormarsch nº 4; "Revolution und Diktatur", en Das Reich nº 1; "Die Kommenden", en Das Reich nº 2; "Vom deutschen Kriegsschauplätze" en Widerstand nº 6; "Die Innerlichkeit", en Widerstand nº 7; "Über die Gleichheit", "Wahrheit und Wirklichkeit", "E.T.A. Hoffmann", en Widerstand nº 9.

5) Participación en obras colectivas: En la obra editada por Ernst Jünger titulada "Die Unvergessenen" (1928), FGJ escribió las monografía sobre Otto Braun, Hermann Löns, Manfred von Richthofen, Gustav Sack, Albert Leo Schlageter, Maximilian von Spee y Georg Trakl; "Krieg und Krieger", en el libro de Ernst Jünger "Krieg und Krieger", 1930: Introducción en la obra sobre la iconografía de Edmund Schlutz, "Das Gesicht der Demokratie. Ein Bilderwerk zur Geschichte der deutschen Nachkriegszeit" (1931); "Glück und Unglück", en "Was ist Glück?", actas del simposium organizado por Armin Mohler sobre Carl Friedrich von Siemens en la Universidad de Munich, 1976.
 

6) Sobre Friedrich-Georg Jünger: Franz Joseph Schöningh, "Friedrich-Georg Jünger und der preussische Stil", en Hochland, febrero 1935; Emil Lerch, "Dichter und Soldat: Friedrich-Georg Jünger", en Schweizer Annalen, julio-agosto 1936; Wilhelm Schneider, "Die Gedichte von Friedrich-Georg Jünger", en Zeitschrift für Deutschkunde, diciembre 1940; Walter Mannzen, "Die Perfektion der Technik", en Der Ruf der jungen Generation, noviembre 1946; Stephan Hermlin, "Friedrich-Georg Jünger und die Perfektion der Technik", en Ansichten über einige neue Schriftsteller und Bücher, 1947; Sophie Dorothee Podewils, "Friedrich-Georg Jünger: Dichtung und Echo", Hamburgo 1947; Joseph Wenzl, "Im Labyrinth der Technik: Zu einem neuen Buch Friedrich-Georg Jüngers", en Wort und Wahrheit nº 3 1948; Max Bense & Helmut Günther, "Die Perfektion der Technik: Bemerkungen über ein Buch von F.G. Jünger", en Merkur 1948; Karl August Horst, "Friedrich-Georg Jünger und der Spiegel der Meduse", en Merkur 1955; Curt Hohoff, "F.G. Jünger" en Jahresring, 1956; Idem "Friedrich-Georg Jünger zum 60" en Geburtstag, 1958; Hans Egon Holthusen, "Tugend und Manier in der heilen Welt: Zu F.G. Jünger", en Hochland, febrero 1959; Hans-Peter des Coudres, Friedrich-Georg-Jünger-Bibliographie", en Philobiblon, Hamburgo ¿1963?; Franziska Ogriseg, "Das Erzählwerk Friedrich-Georg Jünger", Innbruck 1965; Heinz Ludwig Arnold, "Friedrich-Georg Jünger: ein Erzähler, der zu meditieren weiss", en Merkur 1968; Sigfrid Bein, "Der Dichter am See: Geburtstag Friedrich-Georg Jünger" en Welt und Wort, 1968; Dino Larese, "Friedrich-Georg Jünger: Eine Begegnung" en Amriswil, 1968; Robert de Herte, "Friedrich-Georg Jünger" en Éléments nº 23, 1977; Armin Möhler, "Friedrich-Georg Jünger", en Criticon nº 46, 1978; Wolfgang Hädecke, "Die Welt als Maschine. über Friedrich-Georg Jüngers Buch Die Perfektion der Technik", en Scheidewegw nº 3, 1980; Anton H. Richter, "A thematic aproach to the works of F.G. Jünger" Berna 1982; Robert Steuckers, "L´itinérarie philosophique et politiques de Friedrich-Georg Jünger", en Vouloir, nº 45 marzo 1988.

7) Para la comprensión del contexto familiar y político: Karl Otto Paetel, "Versuchung oder Chance? Zur Geschichte des deutschen nationalbolschewismus", Gotinga 1965; Marjatta Hietala, "Der neue nationalismus in der Publizistik Ernst Jüngers und des Kreises um ihn", Helsinki 1975; Heimo Schwilk, "Ernst Jünger, Leben und Werk in Bildern und Texten", Klett-Cotta 1968; Martin Meyer, "Ernst Jünger". Munich 1990.

lundi, 29 mars 2010

Warum Carl Schmitt lesen?

Götz KUBITSCHEK:

Warum Carl Schmitt lesen?

Ex: http://www.sezession.de/

schmitt_carl.jpgSeit der Frühjahrsprospekt meines Verlags versandt ist, hat ein rundes Dutzend Leser angerufen, um zu erfragen, wieso ich gerade die Bücher Carl Schmitts in den Versand aufgenommen habe und warum ich ihn derzeit wieder intensiv lese. Meine Antwort:

+ Schmitt zu lesen ist wie Bach zu hören: Beiläufig, schlagartig, nachhaltig stellt sich Klarheit in der eigenen Gedankenführung ein. Ich nahm mir vorgestern Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus vor und las vor allem die Vorbemerkung zur 2. Auflage von 1926 sehr langsam und genau: Schmitts Unterscheidung von „Demokratie“ und „Parlamentarismus“, seine Herleitung der für eine Demokratie zwingend notwendigen Homogenität der Stimmberechtigten, seine Dekonstruktion Rousseaus – das alles löst den Nebel auf, durch den wir auf unsere heutige Situation blicken.
Dabei ist es von Vorteil, daß Schmitt kein reiner Staatsrechtler war, sondern ebenso Kulturkritiker wie Geschichtsphilosoph. Helmut Quaritsch schreibt in seiner Studie über die
Positionen und Begriffe Carl Schmitts: „Die heutige Politikwissenschaft würde diese Schrift wohl gern für sich reklamieren, wenn ihr der Inhalt mehr behagte.“

+ Man muß Schmitt aus der geistigen Situation seiner Zeit verstehen und man versteht seine Zeit, wenn man ihn liest: Ohne die Erfahrung der Auflösung staatlicher Ordnung und des Zustands des Souveränitätsverlustes nach dem Ersten Weltkrieg kann man Schmitts Ordnungsdenken und seine Verteidigung einer starken staatlichen Führung nicht würdigen. Die Lektüre seiner frühen Texte etwa über „Wesen und Werden des faschistischen Staates“ oder „Staatsethik und pluralistischer Staat“ sind lehrreich und wiederum klärend. Bestens geeignet dafür ist der Sammelband Positionen und Begriffe, in dem 36 Aufsätze aus den Jahren 1923-1939 versammelt sind, unter anderem auch der schwerwiegende „Der Führer schützt das Recht“ oder „Großraum gegen Universalismus“.

+ Vielleicht greift man jetzt, da die katholische Kirche wieder einmal in aller Munde ist, auch einmal zu Schmitts kleiner und feiner Studie Römischer Katholizismus und politische Form. Daraus ein Wort?

Die fundamentale These, auf welche sich alle Lehren einer konsequent anarchistischen Staats- und Gesellschaftsphilosophie zurückführen lassen, nämlich der Gegensatz des „von Natur bösen“ und des „von Natur guten“ Menschen, diese für die politische Theorie entscheidende Frage, ist im Tridentinischen Dogma keineswegs mit einem einfachen Ja oder Nein beantwortet; vielmehr spricht das Dogma zum Unterschied von der protestantischen Lehre einer völligen Korruption des natürlichen Menschen nur von einer Verwundung, Schwächung oder Trübung der menschlichen Natur und läßt dadurch in der Anwendung manche Abstufung und Anpassung zu.

Ich stimme dem Leser zu, der mir gestern schrieb: „Schmitt lesen, das ist in hohem Maße elektrisierend, selbst oder gerade dann, wenn man nicht alles versteht.“ So ist es.

Oder irren wir uns?

mardi, 23 mars 2010

Citation d'Ernst von Salomon

sal.jpgCitation d'Ernst von Salomon

"Il y a une tyrannie à laquelle nous ne pourrons jamais nous soumettre, c'est celle des lois économiques.  Car, étant donné qu'elle est complètement étrangère à notre nature, il nous est impossible de progresser sous elle.  Elle devient insupportable parce qu'elle est d'un rang trop inférieur.  C'est là que se trouve le critère ; c'est là qu'il faut choisir même sans demander de preuves. On a ou non le sens de la hiérarchie des valeurs, et toute discussion est impossible avec ceux qui nient cette hiérarchie."

Ernst Von Salomon, Les Réprouvés, Paris, 1931.

dimanche, 14 mars 2010

Ernst von Salomon - Der Geächtete

Ernst von Salomon – Der Geächtete

Geschrieben von: Matthias Schneider - Ex: http://www.blauenarzisse.de/  

Freikorps2-f9911.jpgWird heute über die Konservative Revolution gesprochen, fallen den meisten wohl als erstes Oswald Spengler, Ernst Jünger oder Carl Schmitt als zentrale Theoretiker dieses Zirkels ein. Des weiteren Namen wie Stefan George oder Gottfried Benn, welche zuvorderst durch ihre lyrischen Werke bestachen und mit selbigen fester Bestandteil des Literaturkanons sind. Häufig unter den Tisch fällt aber Ernst von Salomon – völlig zu Unrecht.

Ein Preuße durch und durch

Über Spengler und Co. ist eine nicht unbeträchtliche Menge an Sekundärliteratur aus sowohl politologischer als auch literaturwissenschaftlicher Feder vorgelegt worden. Über Ernst von Salomon gibt es dagegen bei weitem nicht so viel. Die Sekundärliteratur zu seiner Person und seinem Schaffen lässt sich an maximal zwei Händen abzählen. Im Vergleich zu den Werken seiner Kollegen sind von Salomons heute weitgehend unbekannt. Eigentlich recht verwunderlich, besonders wenn man an seinen 1951 erschienenen Roman „Der Fragebogen“ denkt, welcher zum letzten nicht-linken Bestseller deutscher Sprache werden sollte. Von Salomons Wirken bis zur Veröffentlichung desselben evoziert das Bild eines bewegten, fast schon abenteuerlichen Lebens.

Geboren wurde Ernst von Salomon am 25. September 1902 in Kiel. Seine Familie stammte ursprünglich aus Venedig. Das zum damaligen Zeitpunkt preußische Kiel sollte ihn deutlich prägen. Die preußischen Tugenden verinnerlichte er schon sehr früh. Zusammen mit seinem preußischen Idealbild eines autoritären Staates sozialistischer Prägung ließ er sie zu seiner grundlegenden Lebensmaxime werden. Den entsprechenden charakterlichen Schliff erhielt er in einem preußischen Kadettenkorps. 1919 trat von Salomon in das Freiwillige Landesjägerkorps „General Maercker“ ein. Er wollte das besetzte Deutschland im Kampf gegen den Bolschewismus verteidigen. Neben der Aufgabe, kommunistische Aufstände niederzuschlagen, bestand schließlich ein weiteres Betätigungsfeld im Abschirmen der Weimarer Nationalversammlung. Hier fühlte sich von Salomon deplaziert und ausgenutzt. Es war ihm unklar, wie seine Aufgabe eigentlich auszusehen hatte.

Politischer Aktionismus als Selbstzweck?

Was von Salomon schon früh kennzeichnen sollte, war sein unbedingter Handlungswille: „Nicht das war wichtig, dass, was wir taten, sich als recht erwies, sondern dass in diesen aufgeschlossenen Tagen überhaupt gehandelt wurde.“ Die Frage nach der internationalen Verortung Deutschlands beantwortete er mit seinem erneuten Gang an die Front im Baltikum. Hier kämpfte er Seite an Seite mit den Engländern gegen ein Vordringen der Bolschewisten. Er wurde dafür, wie alle deutschen Truppenangehörigen, die sich zu diesem Schritt entschlossen hatten, von seinem Heimatland mit Verachtung gestraft. Orientierungslos und desillusioniert begaben die Truppen sich Ende 1919 in die Heimat zurück.

Nach Beteiligung am missglückten Kapp-Putsch und kurzzeitigem Aufenthalt in der Reichswehr sollte es zunächst der Kreis um den Brigadeführer Ehrhardt, ein Zusammenschluss von Freikorps sein, dessen Reihen von Salomon sich einzugliedern gedachte, um durch verschiedene Aktionen Widerstand gegen die Besatzung durch die Franzosen zu leisten. Der Wille zum unbedingten Handeln ebnete so den Weg für verschiedene Attentate, denen schließlich am 24. Juni 1922 auch Walther Rathenau zum Opfer fallen sollte.

Rathenau wurde nicht nur als Vertreter des Liberalismus, sondern auch als Erfüllungspolitiker und rechte Hand der Siegermächte geschmäht. Diesen verhängnisvollen Schritt sollte von Salomon später bereuen. Zum einen, weil er damit gegen seine preußischen Werte verstoßen hatte. Außerdem weil seine Beihilfe zu diesem Mord an einem Juden, wenn auch in seinem Fall nicht antisemitisch begründet, einen nicht unbeträchtlichen Eindruck auf Adolf Hitler machen sollte. Hitler feierte die Attentäter fortan als Vorläufer der nationalsozialistischen Bewegung. Von Salomon missfiel das sehr.

Nationalrevolutionäre Bekanntschaften: Hielscher und Jünger

Er wurde zu fünf Jahren Zuchthaus verurteilt, schwor seinem einstigen Extremismus ab und begann während dieser Zeit an eigenen Schriften zu arbeiten. Bereits 1927 entlassen schloss von Salomon Bekanntschaft mit verschiedenen nationalrevolutionär gesinnten Zirkeln. Er verkehrte unter anderem mit Friedrich Hielscher und Ernst Jünger, für deren Zeitschrift Vormarsch er als Redakteur tätig war. Während dieser Zeit engagierte er sich für die Landvolkbewegung in Schleswig-Holstein.

Das führte schließlich zu einer erneuten Verhaftung, da die aufständischen Bauern auch Bombenanschläge, allerdings nur auf Gebäude und Privatwohnungen von Regierungsvertretern, verübten. Zwar sprach sich von Salomon gegen diese Vorgehensweise aus, konnte die Bauern aber nicht davon abbringen. In der Folge wurde er mit einem Anschlag auf den Reichstag in Verbindung gebracht und zu weiteren anderthalb Jahren Zuchthaus in Moabit verurteilt.

Das literarische Werk: „Die Geächteten“, „Die Stadt“, „Die Kadetten“, „Der Fragebogen“

Während dieser Zeit verfasste von Salomon sein erstes größeres Werk, den autobiographischen Roman „Die Geächteten“. Darin erläutert er unter anderem die genauen Umstände und Beweggründe für das Rathenau-Attentat und rekapituliert die Zeit im Gefängnis. Der Titel veranschaulicht von Salomons Selbstverständnis: Immer sah er sich als einen Außenstehenden. Weder in der Weimarer Republik noch im Dritten Reich noch in der Bundesrepublik fühlte er sich je heimisch und dem herrschenden System zugehörig, sondern ausgeschlossen und eben geächtet.

Auf den Romanerstling von 1930 sollte schon zwei Jahre später „Die Stadt“ und schließlich 1933 „Die Kadetten“ folgen. Letzterer handelt von seiner eigenen Jugend im Kadettenkorps und stellt auch eine Art Loblied auf diese Zeit dar. In dem Werk „Nahe Geschichte“ (1936) bemühte sich von Salomon darum, die ideologische Trennlinie zwischen den Freikorpsverbänden, zu denen er sich einst gezählt hatte, und den Nationalsozialisten herauszustellen, insbesondere vor dem Hintergrund der zunehmenden Vereinnahmung ersterer durch letztere: „Die Partei wird wohl schwer zu schlucken haben an dem eindeutigen Verhältnis der Freikorps, auf die sich die Partei als ihre Vorgänger beruft, als Korporationen eines starken Staatsbewusstseins gegenüber dem Volk, welches freilich in allen seinen Manifestationen gegen den staatlichen Willen stand.“

Sein wohl größter Erfolg dürfte aber der ebenfalls wieder autobiographisch angelegte Roman „Der Fragebogen“ sein. Selbiger gilt heute als erster großer deutschsprachiger Nachkriegsbestseller. Er lässt die eigens durchlebten letzten 50 Jahre deutscher Geschichte inklusive aller Biegungen und Brechungen in Form von Antworten auf die im auszufüllenden Entnazifizierungsfragebogen gestellten Fragen Revue passieren. An Zynismus wird hier sowohl in Bezug auf die eigene Vergangenheit mit allen Jugendsünden als auch den vom Autor strikt abgelehnten Nationalsozialismus nicht gespart. Gleichzeitig werden die Fragen sarkastisch-spöttisch kommentiert und insbesondere die Entnazifizierungspraxis der Amerikaner kritisiert.

Von Salomon kritisierte die Alliierten ebenso wie die Nationalsozialisten

Von Salomon scheut sich nicht, konkrete Vergleiche zu den Methoden der Nationalsozialisten anzustellen. Etwa wenn die Häftlinge in den Internierungslagern der Alliierten grundlos als Kriegsverbrecher beschimpft, verprügelt oder mit Urin bespritzt werden. Dass solche Themen auf Seiten der Kritiker, auch schon unter Adenauer, für hitzige Diskussionen und Anfeindungen gegen von Salomon führten, lässt sich leicht vorstellen.

Der Hauptvorwurf an von Salomon dürfte wohl gewesen sein, durch die mitunter zugegebenermaßen etwas undifferenzierte Anklage der Amerikaner, den NS zwangsläufig aufgewertet zu haben. Dass dies keineswegs gewollt war, dürfte anhand von Salomons mehr als einmal deutlich formulierter Abneigung gegenüber Rassismus und Antisemitismus sowie dem totalitären Charakter des NS deutlich geworden sein. Nicht umsonst gab er Ille Gotthelft, eine Jüdin, als seine Frau aus, um sie vor der Verfolgung durch die Nazis zu schützen.

Deutscher Selbstbehauptungswille im verdammten 20. Jahrhundert

Ungeachtet der teilweisen negativen Kritikerstimmen war der Roman ein großer literarischer Erfolg. Auch heute noch lohnt es sich, ihn zu lesen. Von Salomon tritt hier für einen deutschen Selbstbehauptungswillen ein, welcher sich ressentimentfrei und absolut tolerant gegenüber jedweder politischer Idee, solange sie nicht ins Verbrecherische ausufert, zeigt und spricht sich gegen die Kollektivverdammung der eigenen Nation aus. Allerdings reichte der Erfolg des „Fragebogens“ nicht zum Leben und so verfasste von Salomon unter anderem wenig ernstgenommene Drehbücher für Filme. Es wurde zunehmend stiller um ihn. Ernst von Salomon starb am 9. August 1972.

Heute ist seine schillernde und facettenreiche Persönlichkeit weitgehend in Vergessenheit geraten. Auf manche mag von Salomons preußischer Geist antiquiert wirken. Seine Ideen und Betrachtungen sind aber bis heute sehr scharfsinniger Natur. Seine Erfahrungen bieten dem Leser ein weitreichendes Panorama über ein spannendes Leben in schwierigen politischen Zeiten.

mardi, 09 mars 2010

El Cuestionario de Ernst von Salomon

El Cuestionario de Ernst von Salomon

Autore: Julius Evola - Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Ernst von Salomon

salomon_ernst_01_1938_k.jpgEn Alemania tuvo una triste fama el denominado “Cuestionario”: der Fragebogen. Era un formulario que había que llenar y que comprendía 131 preguntas, las cuales no solamente representaban un sistema de información sobre cada mínimo detalle de la persona, de la vida y de las actividades del interrogado, sino que implicaban un verdadero y propio “examen de conciencia”. La única diferencia estaba en que quien lo solicitaba no era la Iglesia sino el gobierno militar aliado.

Justamente con el título El Cuestionario Ernst von Salomon ha escrito un libro que ha tenido en Alemania una vasta resonancia y que ahora ha salido a través de Ediciones Longanesi en versión italiana con el título modificado de Yo sigo siendo prusiano (Io resto prussiano). Von Salomon es ya conocido por otros libros exitosos tales como La ciudad, Los proscriptos, Los cadetes. Aquí emplea casi 900 páginas para darle al aludido “cuestionario” aliado la respuesta deseada de acuerdo a su conciencia. Las diferentes preguntas son ocasiones para una especie de sugestiva autobiografía, que comprende al mismo tiempo el encuadre de acontecimientos, de experiencias y de encuentros de todo tipo, desde el período de la primera posguerra al de la ocupación aliada.

El rubro reservado a las “observaciones” es quizás el más impresionante: se refiere a todo aquello que el autor experimentó con los norteamericanos en sus campos de concentración. En su objetividad es un terrible documento respecto de una brutalidad inaudita, cuanto más odiosa en tanto ha sido producida por aquellos que presumieron de dar a su guerra el carácter de una cruzada en nombre de la humanidad y de la dignidad de la persona humana. Aun queriendo establecer un paralelo con aquello que pudo acontecer en algún campo de concentración alemán, aquí no era ahorrado ni el combatiente heroico, ni el general, ni el alto o digno funcionario, agregándose también aquellas personas arrestadas casualmente que no estaban en condiciones de responder sobre nada en especial. Lo cual fue el caso del mismo von Salomon, nunca inscripto en el partido nazi, y de su compañera, una judía protegida por éste en contra de las medidas anti-hebraicas, a la cual le había hecho poner un nombre falso. Ambos no fueron liberados sino después de más de un año de vida degradante, luego de haberse dado cuenta de que… se trataba de un equívoco.

Respecto al contenido del libro, queremos tan sólo hacer mención a todo aquello que se refiere a aspectos poco conocidos de las fuerzas políticas que en Alemania actuaron durante el advenimiento de Hitler y, en parte, también durante su dictadura. Tal como se ha dicho, Salomon no era nazi. Pertenecía más bien a aquel movimiento que puede denominarse como de la “revolución conservadora“. Luego del derrumbe de 1918 en Alemania tomó forma un movimiento múltiple de entonación nacionalista el cual se proponía la renovación resuelta de formas y métodos, conservando sin embargo los principios fundamentales de la tradición y de la concepción germánico-prusiana del Estado. Con este espíritu estuvieron animadas las formaciones de voluntarios que, al mando del capitán Erhardt, se batieron en la frontera oriental aun luego del derrumbe y que luego, al lado de otras corrientes, actuaron como fuerzas políticas en contra de la Alemania de Weimar, la socialdemocracia y el comunismo. Aquí la consigna era la “revolución desde lo alto”: es decir, una revolución que partiera del Estado y desde la idea de Estado y desde el concepto de autoridad legítima. Estos mismos ambientes forjaron entonces por vez primera la famosa fórmula del “Tercer Reich”.

Ernst_von_Salomon_-_Der_Fragebogen,_157__-_181__Tausend,_Juli_1952.jpgY bien, todo este nucleamiento vio en el nacionalsocialismo no tanto la realización cuanto la traición de sus ideas. Tal como dice von Salomon, el primer serio y gran tentativo del movimiento nacional de provocar un vuelco histórico decisivo partiendo desde lo alto, desde el Estado, fracasó a causa de la existencia de Hitler. Con Hitler, nos agrega, el acento decisivo del nacionalismo se desplazó del Estado al pueblo, a la pura autoridad de la nación como colectividad, y ello fue formulado en el hecho de que para defender una concepción política totalmente opuesta fue utilizada una terminología que se remontaba en gran parte al patrimonio tradicional germano-prusiano.

Todo sumado, nos dice Salomon, el régimen totalitario instaurado por Hitler no sale de los marcos de la democracia, más aun es una democracia exasperada en una especie de tribunado del pueblo. El poder se lo conquista a través de las masas, la legitimación formal del poder es recabada de las masas, mientras que el Estado tradicional autoritario se basa en la jerarquía y sobre un concepto autónomo y superior de la soberanía. Por esto von Salomon no podía ser nacionalsocialista; ni tampoco lo fueron muchos otros que, luego del advenimiento de Hitler y del “partido de masas”, se echaron atrás o bien se afiliaron al movimiento con la sola intención de accionar desde lo interno del mismo en el momento oportuno, luego de que hubiesen sido resueltos algunos problemas improrrogables de política interna y externa. Muchos de tales elementos figuraron entre aquellos que intentaron liberarse de Hitler en junio de 1944. Esta veta escondida de la “revolución conservadora” es en general muy poco conocida, a pesar de su importancia. También a tal respecto los libros de von Salomon son interesantes documentos.

Respecto del último punto, corría por Alemania la siguiente historieta. Se preguntaba: “¿Qué es peor, que se gane la guerra y los nazis sigan estando, o bien que se la pierda y que los nazis desaparezcan?” La respuesta humorista era: “Lo peor de todo es perder la guerra y que a pesar de ello los nazis sigan estando”. Von Salomon nos refiere que, aparte de la broma, los ambientes que le resultaban cercanos habrían considerado una cuarta posibilidad: Ganar la guerra y sobre la base de ello liberarse luego del gobierno de los nazis. Ello en la medida que aun sin ser tan radicales, se hubiese hablado de una acción que, partiendo de las fuerzas combatientes más puras, hubiese removido las estructuras del Estado totalitario tribunalicio en nombre del ideal de un verdadero Estado nacional jerárquico, en esto se habría quizás tenido la fórmula de un futuro mejor, válido no sólo para la Alemania sino quizá también para la misma Italia.

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Roma, 2 de julio de 1954.

dimanche, 28 février 2010

L'itinéraire d'Ernst Niekisch

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1985

L'itinéraire d'Ernst Niekisch

par Thierry Mudry

niek.jpgErnst Niekisch n'est plus un inconnu: de nombreux ouvrages ont longuement évoqué son itinéraire et ses idées, un certain nombre lui ont été entièrement consacré (1). Le dernier en date, "Ernst Niekisch und der revolutionärer Nationalismus" d'Uwe Sauermann, ne concerne bien sûr qu'une période dans l'engagement intellectuel et politique d'Ernst Niekisch, la période nationaliste révolutionnaire (baptisée à tort "national-bolchévique") qui coïncide avec la période de parution de la revue "Widerstand" ("Résistance") que dirigeait Ernst Niekisch de 1926 à 1934). Ne sont pas concernées la période social-démocrate antérieure à 1926, évoquée dans l'ouvrage de Sauermann pour mémoire, et la période postérieure à la guerre (après 1945, Niekisch, devenu marxiste, occupera un poste d'enseignant à l'Université Humboldt de Berlin-Est).

 

Uwe Sauermann se livre à une étude minutieuse de la revue "Widerstand" (il n'hésite pas à recourir à une analyse quantitative des textes afin d'en tirer les concepts-clés) et à travers elle, il étudie l'évolution intellectuelle et la démarche politique d' Ernst Niekisch et de ses amis entre 1926 et 1934. Cette étude s'articule en quatre parties :

-la première porte sur le développement de la revue

-la deuxième sur la position de la revue face au national-socialisme

-la troisième partie sur l'idéologie spécifique de "Widerstand"

-la quatrième sur le rôle de "Widerstand" et du mouvement constitué autour de la revue dans la culture politique de la République de Weimar.

 

Ernst Niekisch : de la social-démocratie au nationalisme

 

Ernst Niekisch joue un rôle non négligeable dans la social-démocratie allemande au lendemain de la première Guerre Mondiale. Le 8 novembre 1918, Ernst Niekisch, alors jeune instituteur social-démocrate, crée le Conseil des ouvriers et soldats d'Augsburg dont il devient le président. Le 21 février 1919, il est élu président du Comité Central des Conseils de Bavière mais il refuse de participer à l'expérience de la République des Conseils de Bavière et à la République soviétique de Bavière; il est condamné à deux ans de prison pour "complicité de haute trahison". Passé à l'USPD (Parti social-démocrate indépendant, aile gau-che dissidente de la social-démocratie) au Landtag de Bavière. En 1922, en même temps que la plupart des "indépendants", Niekisch rejoint la social-démocratie. Une brillante carrière politique semble s'ouvrir à lui. Mais Niekisch quitte Munich pour Berlin où il devient secrétaire de l'organisation de jeunesse du syndicat des ouvriers du textile; il n'est plus qu'un modeste fonctionnaire syndical. A partir de l'automne 1924, Niekisch exprime dans la revue socialiste "Der Firn" ("Le Névé") dont il est le rédacteur en chef, des opinions "nationales" qui se transforment rapidement par la suite en un natio-nalisme ultra et "machiavélien". A la même époque, Niekisch entre en contact avec le "Cercle de Hofgeismar" des jeunes socialistes, de tendance nationaliste. La "politique d"exécution" du Traité de Versailles et l'occupation de la Ruhr par les troupes franco-belges ont provoqué chez Niekisch, comme chez certains jeu-nes socialistes une prise de conscience nationale. Violemment pris à partie au sein de la SPD, Niekisch quitte le Parti au début de l'année 1926 suivi par les membres du Cercle de Hofgeismar.

 

En 1926, Niekisch adhère au Parti "vieux social-démocrate" (A-SP) fondé par 23 députés socialistes du Landtag de Saxe. Niekisch devient directeur de pu-blication du quotidien de l'A-SP, le "Volkstaat". Rapidement, il passe pour le "guide spirituel" du nouveau Parti (P.44). Lors du Congrès de Dresde de l'A-SP, Niekisch appelle les travailleurs à une "conscience d'Etat et de peuple", et il in-vite la République à s'attacher "passio-nément" au relèvement de l'Allemagne (note 1, P.47). En même temps, avec d'an-ciens membres du Cercle de Hofgeismar, Niekisch fonde la revue "Widerstand" et y apporte une note personnelle.

 

Les élections législatives de mai 1928 sont un échec total pour l'A-SP. En novembre, Niekisch quitte l'A-SP après que le troisième Congrès du Parti ait rejeté son projet de programme (P.65). La revue "Widerstand" coupe alors tous les ponts avec le socialisme (traditionnel) et bascule totalement dans le camp de l'extrême-droite nationaliste. Dès 1926, alors que les jeunes socialistes quit-taient la revue, "Widerstand" avait ouvert ses colonnes à des nationalistes et  s'é-tait attaché comme collaborateurs per-manents les responsables des groupes pa-ramilitaires "Oberland" et "Wehrwolf" ainsi que l'écrivain "ancien combattant" Franz Schauwecker, un proche d'Ernst Jünger. En 1929, Friedrich-Georg et Ernst Jünger, porte-parole du "nouveau natio-nalisme" font leur entrée dans la revue.

 

Entre 1928 et 1930, Niekisch prend l'initiative d'actions unitaires dans le camp nationaliste. En octobre 1928, il réussit à réunir les chefs des groupes paramilitaires "Stahlhelm", "Jungdo", "Wehrwolf", "Oberland", etc., afin de con-stituer un "cercle de chefs" ("Führerring"). Cette entreprise unitaire (déjà tentée quelques années plus tôt par Ernst Jünger) échouera finalement. En 1929, Niekisch tente de réunir les ligues de jeunesse et les associations d'étudiants dans une "ac-tion de jeunesse" contre le Plan Young. C'est un demi succès. Par la suite, Niekisch se contentera de susciter un "mouvement de résistance" autour de la revue, à partir des "Camaraderies Ober-land" (une partie du groupe "Oberland" est en effet acquise à ses thèses). Ce mouvement entre dans la clandestinité en 1933; il sera finalement démantelé par la Gestapo en 1937 et ses responsables, dont Niekisch, emprisonnés(2).

 

En 1930, la radicalisation de "Wider-stand", la prise en main totale par Nie-kisch… et son mauvais caractère ("désa-gréable et sentencieux", il prétend "savoir toujours tout mieux que les autres"; cfr. p. 74); il est considéré comme un "Ober-lehrer", un désagréable donneur de leçons, par la nouvelle génération nationaliste) provoquent le départ de certains colla-borateurs de la revue, celui notamment d'Auguste Winnig, et entraînent la margi-nalisation de "Widerstand" au sein du camp nationaliste.

 

"Widerstand" :

Du "Nationalisme prolétarien" au "Bolchévisme prussien".

 

widerstand.jpgDe l'écheveau apparemment inextri-cable des actions menées et des thèmes développés par Niekisch et "Widerstand", Uwe Sauermann dégage un fil directeur: le nationalisme absolu, inconditionnel, (un-bedingt) professé par Niekisch dès les années 25-26.

- Niekisch pense d'abord qu'il échoit à la classe ouvrière d'incarner ce nationa-lisme et d'en réaliser le programme (un programme de politique extérieure), con-tre le Traité de Versailles, système d'op-pression (oppression politique de l'Alle-magne par les puissances occidentales, oppression sociale des travailleurs par le capitalisme international). C'est l'époque du "nationalisme prolétarien" (1925/ 1928). L'influence de Lassalle est mani-feste.

-Puis les espoirs de Niekisch se portent sur les groupes paramilitaires et les ligues de jeunesse nationalistes. En même temps, Niekisch découvre derrière le Traité de Versailles l'Occident, et particulièrement la Romanité, qui mena-cent l' "Etre allemand". Il découvre aussi la "protestation allemande" contre Rome qu'incarnait Luther, et l' "esprit de Potsdam" qui incarnait la vieille Prusse, qui fondent tous deux la non-occidentalité de l'Allemagne. C'est l'époque de la "Wi-derstandsgesinnung" (1928-1930), comme l'appelle Sauermann.

-L'idéologie de "Widerstand" se radica-lise en 1930-1931 et donne naissance au "bochévisme prussien": Niekisch pense que l'Allemagne doit se tourner vers l'Est pour échapper à l'Occident, particulièrement vers la Russie soviétique qui est l'anti-Occident et qui incarne désormais l' "esprit de Potsdam" (qui a échappé à l'Allemagne et que l'Allemagne doit re-prendre aux Russes). Niekisch place alors ses espoirs dans la paysannerie, et, pen-dant un temps aussi, dans le prolétariat révolutionnaire (c'est-à-dire le Parti Communiste allemand qu'il considère comme un "avant-poste" de la Russie so-viétique), à condition qu'il soit placé sous une direction (spirituelle) nationaliste.

-Enfin, Niekisch, impressionné par les réalisations du Plan quinquennal et de la collectivisation soviétiques (il fit un voyage en Russie en 1932) ainsi que par la lecture du "Travailleur" de Jünger, pres-sent l'apparition d'une "Troisième Figure Impériale" planétaire, dont la ratio sera technique et qui supplantera l'"éternel Romain" (dont la ratio est métaphysique) et l'"éternel Juif" (dont la ratio est éco-nomique)(3). Niekisch s'éloigne du natio-nalisme absolu qu'il professait jusqu'a-lors.

 

En 1926-27, la revue "Widerstand" prône un nationalisme prolétarien dont Niekisch affirme qu'il n'est en aucun point semblable au nationalisme "social-réac-tionnaire" de la bourgeoisie (p. 180). Ce nationalisme prolétarien, qui plonge ses origines à la fois dans l'idéologie du Cercle de Hofgeismar et dans les écrits antérieurs de Niekisch, repose sur trois idées-forces :

1. La classe ouvrière, en raison de son attitude fondamentalement collectiviste ("kollektivistische Grundhaltung"), parce qu'elle ne possède rien et échappe ainsi "aux motivations égoïstes de la propriété individuelle", peut devenir l'organe le plus pur de la raison d'Etat et la classe nationale (porteuse du nationalisme) par excellence;

2. Le capitalisme international as-servit l'Allemagne et l'Allemagne est devenue, depuis la guerre et le Traité de Versailles, une nation prolétaire;

3. La révolution sociale contre les exploiteurs occidentaux du prolétariat allemand et la révolution nationale contre le Traité de Versailles sont étroitement liées (pp. 180 à 182).

 

Après avoir idéalisé le prolétariat, Niekisch, déçu par l'expérience de l'A-SP, reporte ses espoirs sur la "minorité na-tionaliste", c'est-à-dire les groupes para-militaires et les ligues de jeunesse mais aussi sur la paysannerie révolutionnaire. En 1932, Niekisch militera pour la can-didature du leader paysan Claus Heim aux élections présidentielles. Dans ses "Gedanken über deutsche Politik" ("Pen-sées sur la politique allemande") publiées en 1929, Niekisch évoque la "minceur" de la "substance völkisch" de l'ouvrier (p. 195). Cette "substance humaine et völ-kisch" aurait été broyée, pulvérisée, écri-ra-t-il plus tard dans "Widerstand" (ar-ticle intitulé "l'espace politique de la résistance allemande", novembre 1931), dès lors le combat prolétarien ne pourrait exprimer que du "ressentiment social" (p. 284). Dans le même article, Niekisch pré-cisera que l'espace politique de la ré-sistance allemande se situe entre le prolétariat déraciné et la bourgeoisie oc-cidentale(4).

 

Niekisch découvre que l'Allemagne n'est pas seulement politiquement (et économiquement) opprimée, mais qu'elle est aussi culturellement aliénée. Le Trai-té de Versailles et le Système de Weimar permettent à l'Occident, et particuliè-rement à la Romanité, d'étouffer l'Etre al-lemand et de dominer la totalité de l'es-pace allemand. A mesure que l'idéologie de "Widerstand" se radicalise, l'aspect anti-romain se renforce et devient pré-pondérant.

 

Niekisch et "Widerstand" s'en prennent à toutes les manifestations de l'Occident et de la Romanité en Allemagne : les idées de Progrès, d'Humanité, de Paix et d'Ami-tié entre les peuples dénoncées comme autant de mythes incapacitants destinés à désarmer l'Allemagne et à tuer en elle toute volonté de résistance (pp. 199/ 200); les "idées de 1789"; la civilisation (occidentale) et les grandes villes; l'in-dividualisme; le libéralisme (p. 200); le capitalisme (p. 200); la bourgeoisie (p. 200), véritable ennemi intérieur dont Niekisch souhaite la liquidation dans une "Saint-Barthélémy" ou de nouvelles "Vê-pres siciliennes"(5); la propriété privée au sens du droit romain; mais aussi le mar-xisme, ultime conséquence du libéra-lisme; le catholicisme bien sûr; la Ré-publique de Weimar; le parlementarisme; la démocratie (ou plus exactement: le "dé-mocratisme", c'est-à-dire la recherche de l'appui des masses qui, selon Niekisch, caractérise aussi le fascisme); et le fas-cisme.

 

Niekisch écrit son premier long article sur le national-socialisme en mai 1929 ("Der deutsche Nationalsozialismus"). Il y critique l'orientation pro-italienne et pro-britannique du nazisme, c'est-à-dire son orientation pro-romaine et pro-capi-taliste/pro-impérialiste. Il dénonce aussi l'intégration du nazisme dans le Système de Weimar (pp. 95 à 97). Dans son livre "Hitler, une fatalité allemande", publié en 1931, Niekisch expose longuement les motifs de son anti-hitlérisme: après avoir reconnu les débuts positifs du mouvement nazi, Niekisch condamne la "trahison ro-maine" de Hitler qui transforme le natio-nal-socialisme en un mouvement fasciste et "catholique", donc "romain", la trahison nationale au profit de l'ordre de Ver-sailles et du Système de Weimar et la trahison sociale d'Hitler au profit du ca-pitalisme. Rapidement, dans les années 31/32, la résistance contre l'Occident et contre Rome s'identifie à la résistance contre le fascisme et l'hitlérisme dont la force croît.

 

Face à l'Occident et à la Romanité: la "protestation allemande" et "l'esprit de Potsdam". Baeumler (l'un des futurs philosophes officiels du IIIème Reich), est le premier à évoquer, en décembre 1928, dans "Widerstand", la "protestation alle-mande contre Rome" incarnée par Luther. Niekisch reprend et développe ce thème en s'inspirant fortement de Dostoïevsky(6). Dans un article d'avril 1928, Friedrich Hielscher, un ami d'Ernst Jünger, affirme que la "non-occidentalité de la nature al-lemande" repose sur une "attitude prus-sienne", un prussianisme frédéricien (p. 216). Quelques mois plus tard, Niekisch oppose l'"esprit de Potsdam" (le prus-sianisme) à l'"esprit de Weimar" occi-dental et francophile (p.217). L'"esprit de Potsdam", chassé de Prusse, se serait in-carné dans la Russie bolchévique (pp. 218/219 et p. 244): c'est l'article de base et de référence du "bolchévisme prussien" des années 1930 à 1932.

 

niek-hit.jpgL'idéologie de "Widerstand" se radica-lise encore dans les dernières années de la République de Weimar. De nouveaux thèmes apparaissent dans un article de Niekisch de septembre 1929 "Der ster-bende Osten" ("l'Est mourant") (p.229), et dans un article de mars 1930 de Werner Hennecke, pp. 231 à 233 (celui-ci, un col-laborateur du périodique "Blut und Boden", est proche du Mouvement Paysan). Ils se-ront repris et développés dans le pro-gramme politique de la résistance alle-mande en avril 1930 (pp. 234/235) (7). Niekisch et "Widerstand" préconisent alors :

- l'orientation vers l'Est (Prusse bien sûr et Russie bolchévique);

- le retour à la terre, à la "barbarie et à la primitivité paysanne", à un mode de vie paysan et soldatique (ces deux exi-gences tendent à se confondre: l'Est prus-sien et l'Est russe-bolchévique sont qua-lifiés de "barbares"; la Prusse et la Rus-sie bolchévique s'appuieraient sur un fond paysan originel, primitif, soumis à la dis-cipline d'un Etat militaire).

 

Dans "Das Gesetz von Potsdam" ("La loi de Potsdam", article d'août 1931), Nie-kisch préconise de renverser l'édifice oc-cidental construit en Allemagne par Charlemagne (le peuple allemand doit, s'il veut se retrouver lui-même, retourner à une époque pré-romaine et pré-chrétienne, p. 227). Charlemagne a établi la domination "romaine" sur les Germains au moyen de la violence militaire, d'une aliénation spirituelle-mentale et consolidé biologiquement sa création en massacrant la noblesse saxonne et en organisant en Saxe une implantation/colonisation latine. "Depuis plus de 1000 ans, l'histoire allemande s'est mue sur le "terrain biologique, politique et spirituel de la création carolingienne" (p. 240). Pour Niekisch, il faut rompre avec l'idée romaine d'Imperium, avec le christianisme et l'esprit romain, traiter le sang romain de la même façon que Charlemagne a traité le sang saxon (p. 241) et bâtir un ordre nouveau sur trois "colonnes" : l'Etat prussien; un "esprit prussien archaïque"; une "autre substance vitale", la "race prussienne" germanoslave; pp. 242/243 (sur l'opposition raciale entre la Prusse et l'Allemagne du Sud et de l'Ouest, lire note p.220).

 

Niekisch prône une alliance militaro-économique, mais aussi idéologique ("weltrevolutionär" précise Niekisch - "révolutionnaire-mondiale"), avec la Russie bolchévique. Il imagine même un Empire russo-allemand "de Vladivostock à Flessingue" (ici, Niekisch semble dépasser son nationalisme allemand absolu pour penser en termes de politique impériale).

 

Mais l'image idéalisée du bolchévisme que Niekisch projette dans "Widerstand" n'a rien à voir avec le marxisme-léninisme, y compris dans sa version stalinienne, ni avec la réalité du bolchévisme : le bolchévisme représente aux yeux de Niekisch l'Anti-Occident absolu, "barbare asiatique", il consituerait un camp (Fedlager) contre l'Occident et incarnerait l'idée de Potsdam. Uwe Sauermann soutient que le "bolchévisme prussien" de "Widerstand" ne se confond pas avec  le "national-bolchévisme" : en effet, "Widerstand" ne propose pas d'importer le bolchévisme en Allemagne et de le nationaliser, mais prétend reprendre au bolchévisme l'Idée de Potsdam d'origine prussienne; l'équipe de "Widerstand" est indifférente au marxisme et à la "construction du socialisme" : ce qui l'intéresse, ce sont les aspects prétenduement prussiens du bolchévisme(8); enfin, elle demeure méfiante et même hostile à l'égard du Parti Communiste allemand (pp. 297 à 306).

 

Finalement, le bolchévisme s'assagira (traités de non-agression russo-polonais et russo-français de 1932, entrée de l'U.R.S.S. dans la Société des Nations en 1934) et trahira ainsi les espoirs de Niekisch (pp. 264 à 266). Celmui-ci portera alors son attention sur la Figure impériale en émergence dont l'avènement mettra fin à la domonation de l'Occident et de Rome et à la civilisation occidentale elle-même.

 

Uwe SAUERMANN : "Ernst Niekisch und der revolutionäre Natinalismus" - Bibliotheksdienst Angere (München 1985), 460 S., DM 32.

 

 

Notes :

 

1. Jean-Pierre Faye décrit les idées de Niekisch dans ses "Langages totalistaires", pp. 101 à 127 (Paris, 1973) et Louis Dupeux lui consacre deux chapitres de sa thèse volumineuse sur le national bolchévisme ("Stratégie communiste et dynamique conservatrice. Essai sur les différents sens de l'expression "national-bolchévisme", en Allemagne, sous la République de Weimar (1919-1933)", Lille et Paris, 1976).En Allemagne, Niekisch, évoqué  dans l'ouvrage d'Otto-Ernst Schuddekopf sur les mouvements NR dans la République de Weimar ("Linke Leute von Rechts. Die national-revolutionäre Minderheiten und der  Kommunismus in der Weimarer Republik", Stuttgart 1960, rééd. en 1973), a fait l'objet de deux monographies, l'une que l'on doit à Friedrich Kabermann ("Widerstand und Entscheidung eines deutschen Revolutionärs, Leben und Denken von Ernst Niekisch", Köln 1973), l'autre à Uwe Sauermann ("Ernst Niekisch. Zwischen allen Fronten", München & Berlin 1980).

 

2. Sur les actions politiques menées par Niekisch depuis 1928 : lire la quatrième partie d'Uwe Sauermann (pp. 321 à 440).

Le livre de Joseph Drexel (l'adjoint de Niekisch) "Voyage à Mauthausen. Le Cercle de Résistance de Nuremberg" (Paris 1981), contient le texte du jugement secret du tribunal populaire du 10 janvier 1939 contre Niekisch, Drexel et Tröger. Il déclare à la fois l'attitude de "Widerstand" à l'égard du nazisme (sujet traité dans la deuxiè!me partie de l'ouvrage de Sauermann) et les activités oppositionnelles de Niekisch et de ses amis sous le IIIème Reich.

 

3. Lire à ce sujet : Sauermann, pp. 316 à 320, mais aussi l'article de Louis Dupeux "Pseudo- "Travailleurs" contre prétendu "Etat bourgeois"" dans "La Revue d'Allemagne", tome XVI, n°3, juillet-septembre 1984, pp. 434 à 449.

 

4. Louis Dupeux "Stratégie communiste et  dynamique conservatrice. Essai sur les différents sens de l'expression "national-bolchévisme", en Allemagne, sous la République de Weimar (1919-1933)", Lille et Paris, 1976)pp. 415/416.

 

5. Ibid., p. 401

 

6. Ibid., pp 391/392, mais aussi Friedrich Kabermann "Widerstand und Entscheidung eines deutschen Revolutionärs, Leben und Denken von Ernst Niekisch", Köln 1973, (extrait significatif dans "Orientations" n°4).

 

7. Reproduit in exrenso dans "Versuchung oder Chance ? Zur Geschichte des deutschen National-Bolchevismus" de Karl-Otto Paetel (Göttingen 1965), pp. 282 à 285.

 

8. Curieusement d'ailleurs, cet ancien leader social-démocrate qu'est Niekisch ne manifeste aucune préoccupation sociale : s'il est anti-capitaliste c'est parce que le capitalisme est une expresiion de la pensée occidentale, s'il est "socialiste-révolutionnaire", s'il veut liquider la bourgeoisie occidentalisée, c'est parce que la bourgeoisie est un "ennemi intérieur", un "cheval de Troie" de l'Occident en Allemagne (il ne s'agit donc pas là d'un " social-révolutionnarisme authentique"), cf. p. 200.

dimanche, 21 février 2010

La leçon du philosophe et sociologue Hans Freyer

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

La leçon du sociologue et philosophe Hans Freyer

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freyer.jpgPour Hans Freyer (1887-1969), sociologue allemand néo-conservateur (« jeune-conservateur », jungkonservativ) qui sort du purgatoire où l'on avait fourré tous ceux qui ne singeaient pas les manies de l'École de Francfort ou ne paraphrasaient pas Saint Habermas, la virtù de Machiavel n'est pas une "vertu" ou une qualité statique mais une force qui n'attend qu'une chose : se déployer dans l'aire concrète de la Cité, dans l'épaisseur de l'histoire et du politique. Fondateur de l’École de Leipzig, d’où seront issus les meilleurs cadres de la sociologie historique de Weimar (il est parmi les fondateurs, avec Werner Conze, de la nouvelle histoire sociale allemande), puis de la sociologie nazie et une grande partie des sociologues conservateurs allemands d’après-Guerre (not. Helmuth Schelsky), ce sociologue a une solide formation de philosophe, dont l’ouvrage fondateur, Theorie des objektiven Geistes (1928) qui poursuit les pensées de Hegel et de Wilhelm Dilthey, va préparer le projet sociologique, not. dans son ouvrage Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft (1930), d’une « révolution de droite » qui prendrait acte de l’anomie de la société industrielle et de l’échec de la lutte des classes, en lui opposant un État autoritaire. Ayant pris ses distances avec le nazisme – il sera professeur à Budapest entre 1941 et 1945 – il est l’exemple même du penseur conservateur, du théoricien de cette Révolution conservatrice qui aura grand mal à se justifier au moment de la dénazification. Il n’en est pas moins l’un des premiers sociologues professionnels qui, après la mort de Max Weber et de Georg Simmel, dont il ne cesse de se nourrir de manière critique, va lancer des projets innovateurs en sociologie industrielle, des organisations et de l’administration publique.

 

Victor Leemans, qui avant-guerre avec Raymond Aron introduisit en Belgique et en France les grands noms de la sociologie allemande, écrivait, à propos de Hans Freyer, dans son Inleiding tot de sociologie (Introduction à la sociologie, 1938) :

« Pour Freyer, toute sociologie est nécessairement "sociologie politique". Ses concepts sont toujours compénétrés d'un contenu historique et désignent des structures particulières de la réalité. Dans la mesure où la sociologie se limite à définir les principaux concepts structurels de la vie sociale, elle doit ipso facto s'obliger à prendre le pouls du temps. Elle doit d'autant plus clairement nous révéler les successions séquentielles irréversibles où se situent ces concepts et y inclure les éléments de changement, Les catégories sont dès lors telles : communauté, ville, état (Stand), État (Staat), etc., tous maillons dans une chaîne processuelle concrète et réelle. Ces concepts ne sont pas des idéaltypes abstraits mais des réalités liées au temps. (...)

Selon Freyer, aucune sociologie n'est donc pensable qui ne débouche pas dans la connaissance de la réalité contemporaine. À ce concept de réalité ne s'attache pas seulement la connaissance des structures immédiatement perceptibles mais aussi et surtout la connaissance des volontés de maintien ou de transformation qui se manifestent en leur sein. La connaissance sociologique opte nécessairement pour une direction déterminée découlant d'une connaissance de la Realdialektik (dialectique réalitaire [ou dialectique réelle, c'est-à-dire non simplement discursive])... ».

 

Une sociologie de l'homme total

 

­Malgré cette définition courte de l'œuvre de Freyer, définition qui veut souligner le recours au concret postulé par le sociologue allemand, nous avons l'impression de nous trouver face à un édifice conceptuel horriblement abstrait, détaché de toute concrétude historique. Ce malaise, qui nous saisit lorsque nous sommes mis en présence de l'appareil conceptuel forgé par Freyer, doit pourtant disparaître si l'on fait l'effort de situer ce sociologue dans l'histoire des idées politiques. Avec les romantiques, les jeunes hégéliens (Junghegelianer), Feuerbach et Karl Marx, le XIXe siècle montre qu'il souhaite abandonner définitivement l'homme des humanistes, cet homme perçu comme figure universelle, comme espèce générale dépouillée de sa dimension historico-concrète. Désormais, sous l'influence et les coups de boutoir de ces philosophies concrètes, l'épaisseur historique sera rendue à l'homme : on le percevra comme seigneur féodal, comme serf, bourgeois ou prolétaire.

 

Une « objectivité » qui doit mobiliser l'homme d'action

 

Mais ces hégéliens et marxistes, qui dépassent résolument l'idéalisme fixiste de l'humanisme antérieur au XlXe, demeurent mécaniquement enfermés dans la vision de l'homo œconomicus et n'explorent que chichement les autres domaines où l'homme s'exprime. À cette négligence des matérialistes marxistes répond l'hyper-mépris des économismes d'un Wagner ou d'un Schopenhauer, d'un Nietzsche ou d'un Jakob Burckhardt. L'homme total n'est appréhendé ni chez les uns ni chez les autres. Pour Freyer, les essayistes et polémistes anglais Carlyle et John Ruskin nous ont davantage indi­qué une issue pour échapper à ce rabougrissement de l'homme. Leurs préoccupations ne les entraînaient pas vers des empyrées légendaires, néo-idéalistes ou spiritualistes mais les amenaient à réfléchir sur les moyens de dépasser l'homme capitaliste, de restituer une harmonie entre le travail et la Vie, entre le travail et la création intellectuelle ou artistique.

Dans deux postfaces aux travaux de Freyer sur Machiavel (ou sur l'Anti-Machiavel de Frédéric Il de Prusse), Elfriede Üner nous explique comment fonctionne concrètement la sociologie de Freyer, qui cherche, au-delà de l'abstractionnisme matérialiste marxiste et de l'abstractionnisme humaniste pré-mar­xiste, à restaurer l'homme total. Pour parvenir à cette tâche, la sociologie et le sociologue ne peuvent se contenter de décrire des faits sociaux passés ou présents, mais doivent forger des images mobilisatrices ti­rées du passé et adaptées au présent, images­ qui correspondent à une volition déter­minée, à une volition cherchant à construire un avenir solide pour la Cité.

La méthode de Freyer repose au départ, écrit Elfriede Üner, sur la théorie de "l'esprit objectif" (Theorie des objektiven Geistes). Cette théorie recense les faits mais, simultanément, les coagule en un programme revendicateur et prophétique, indiquant au peuple politique la voie pour sortir de sa misère actuelle. Le sociologue ne saurait donc être, à une époque où le peuple cherche de nouvelles for­mes politiques, un savant qui fuit la réalité concrète pour se réfugier dans le passé : « Qu'il se fasse alors historien ou qu'il se retire sur une île déserte ! », ironisera Freyer. Cette parole d'ironie et d'amertume est réellement un camouflet à la démarche "muséifiante" que bon nombre de sociologues "en chambre" ne cessent de poser.

Les écrits de sociologie politique doivent donc receler une dimension expressionniste, englobant des appels enflammés à l'action. Ces appels aident à forger le futur, comme les appels de Machiavel et de Fichte ont contribué à l'inauguration d'époques historiques nouvelles. Fichte parlait d'un « devoir d'action » (Pflicht zur Tat). Freyer ajoutera l'idée d'un « droit d'action » (Recht zur Tat). « Devoir d'action » et « droit d'action » forment l'épine dorsale d'une doctrine d'éthique poli­tique (Sittenlehre). L'activiste, dans cette optique, doit vouloir construire le futur de sa Cité. Anticipation constructive et audace activiste immergent le sociologue et l'acteur politique dans le flot du devenir historique. L'activiste, dans ce bain de faits bruts, doit savoir utiliser à 100 % les potentialités qui s'offrent à lui. Cette audacieuse mobilisation totale d'énergie, dans les dangers et les opportunités du devenir, face aux aléas, constitue un "acte éthique".

 

Une immersion complète dans le flot de l'histoire

 

L'éthique politique ne découle pas de normes morales abstraites mais d'un agir fécond dans la mouvance du réel, d'une immersion complète dans le flot de l'histoire. L'éthique freyerienne est donc "réalitaire et acceptante". Agir et décider (entscheiden) dans le sens de cette éthique réalitaire, c'est rendre concrètes des potentialités inscrites dans le flot de l'histoire. Freyer inaugure ici un "déterminisme intelligible". Il abandonne le ­concept de "personnalité esthétisante", individualité constituant un petit monde fermé ­sur lui-même, pour lancer l'idée d'une personnalité dotée d'un devoir précis, celui de fonctionner le plus efficacement possible dans un ensemble plus grandiose : la Cité. L'éthique doit incarner dans des images matérielles concrètes, générant des actes et des prestations individuels concrets, pour qu'advienne et se déploie l'histoire.

Selon cette vision freyerienne de l'éthique politique, que doit nécessairement faire sienne le sociologue, un ordre politique n'est jamais statique. Le caractère processuel du politique dérive de l'émergence et de l'assomption continuelles de potentialités historiques. Le développement, le changement, sont les fruits d'un déplacement perpétuel d'accent au sein d'un ordre politique donné, c'est-à-dire d'une politisation subite ou progressive de tel ou tel domaine dans une communauté politique. Le développement et le changement ne sont donc pas les résultats d'un "progrès" mais d'une diversification par fulgurations successives [fractales], jaillissant toutes d'une matrice politico-historique initiale. La  logique du sociologue et du politologue doit donc viser à saisir la dynamique des fulgurances successives qui remettent en question la statique éphémère et nécessairement provisoire de tout ordre politique.

 

Une sociologie qui tient compte des antagonismes

 

Cette spéculation sur les fulgurances à venir, sur le visage éventuel que prendra le futur, contient un risque majeur : celui de voir la sociologie dégénérer en prophétisme à bon marché. Le sociologue, qui devient ainsi "artiste qui cisèle le futur", poursuit, dans le cadre de l'État, l'œuvre de création que l'on avait tantôt attribué à Dieu tantôt à l'Esprit. L'homme, sous l'aspect du sociologue, devient créateur de son destin. Au Dieu des humanistes chrétiens, s'est substitué une figure moins absolue : l'homo politicus... Cette vision ne risque-t-elle pas de donner naissance aux pires des simplismes ?

Elfriede Üner répond à cette objection : la reine Rechtslehre (théorie pure du droit) du libéral Hans Kelsen, idole des juristes contemporains et ancien adversaire de Carl Schmitt, constitue, elle aussi, une "simplification" quelque peu outrancière. Elle n'est finalement que repli sur un formalisme juridique qui détache complètement le système logique, constitué par les normes du droit, des réalités sociales, des institutions objectives et des legs de l'histoire. Rudolf Smend, lui, parlera de la "domination" (Herrschaft) comme de la forme la plus générale d'intégration fonctionnelle et évoquera la participation démocratique des dominés comme une intégration continue des individus dans la forme globale que représente l'État.

Cette idée d'intégration continue, que caressent bon nombre de sociaux-démocrates, évacue tensions et antagonismes, ce que refuse Fre­yer. Si, pour Smend, la dialectique de l'es­prit et de l'État s'opère en circuit fermé, Freyer estime qu'il faut dépasser cette situation par trop idéale et concevoir et forger un modèle de système plus dynami­que, capable de saisir les fluctuations tragi­ques d'une ère faite de révolutions. L'idéal d'une intégration totale s'effectuant progressivement ne permet pas de projeter dans la praxis politique des "futurs imaginés" qui soient réalistes : un tel idéal s'abrite frileusement derrière la muraille protectrice d'un absolu théorique.

 

À droite : utopies passéistes, à gauche : utopies progressistes

 

La dialectique de l'esprit et du politique (de l'État), c'est-à-dire de l'imagination constructive et des impératifs de la Cité, de l'imagination qui répond aux défis de tous ordres et des forces incontournables du politique, n'a reçu, en ce siècle de turbulences incessantes, que des interprétations insatisfaisantes. Freyer estime que la sociologie organique d'Othmar Spann (1878-1950) constitue une impasse, dans le sens où elle opère un retour nostalgique vers la structuration de la société en états (Stände) avec hiérarchisation pyramidale de l'autorité. Cette autorité abolirait les antagonismes et évacuerait les conflits : ce qui indique son caractère finalement utopique. À "gauche", Franz Oppenheimer élabore une sociologie "progressiste" qui évoque une succession de modèles sociaux aboutissent à une société sans classes et sans plus aucun antagonisme : cet espoir banal des gauches s'avère évidemment utopique, comme l'ont indiqué quantité de critiques et de polémistes étrangers à ce messianisme. Freyer renvoie donc dos à dos les utopistes passéistes de droite et les utopistes progressistes de gauche.

Ces systèmes utopiques sont "fermés", signale Freyer longtemps avant Popper, et trahissent ipso facto leur insuffisance fondamentale. Les concepts scientifiques doivent demeurer "ouverts" car l'acteur politique injecte en eux, par son action concrète et par son expérience existentielle, la quintessence innovante de son époque. Freyer privilégie ici l'homo politicus agissant, le sujet de l'histoire. Les acteurs politiques, dans l'opti­que de Freyer, façonnent le temps.

L'idée essentielle de Freyer en matière de sociologie, c'est celle d'une construction pratique ininterrompue de la réalité [les époques sont en relation les unes aves avec les autres dans la dynamique de la continuité historique]. Aux époques politiquement instables, les normes scientifiques (surtout en sciences humaines) sont décrétées obsolètes ou doivent impérativement subir un aggiornamento, une re-formulation. L'histoire est, par suite, un chantier où œuvrent des acteurs-artistes qui, à la façon des expressionnistes, recréent des mondes à partir du chaos, de ruines. Freyer, écrit Elfriede Üner, glorifie, un peu mythiquement, l'homme d'action.

 

Le peuple (Volk) est le dépositaire de la virtù

 

Le personnage de Machiavel, analysé méthodiquement par Freyer, a projeté dans l'histoire des idées cette notion expressionniste/ créatrice de l'action politico-historique. Le concept machiavelien de virtù, estime Freyer, ne désigne nullement une "vertu morale statique" mais représente la force, la puissance de créer un ordre politique et le maintenir. Virtù recèle dès lors une qualité "processuelle", écrit Elfriede Üner. Par le biais de Machiavel, Freyer introduit, dans la science sociologique jusqu'alors "objective" et statique à la Comte, un ferment de nietzschéisme, dans le sens où Nietzsche voyait l'existence humaine comme un imperfectum qui ne pouvait jamais être "parfait" mais qu'il fallait sans cesse façonner et travailler.

Le "peuple", dans la vision freyerienne du social et du politique, est, grâce à sa mémoire historique, le dépositaire de la virtù, c'est-à-dire de la "force créatrice d'histoire". Le peuple suscite des antagonismes quand les normes juridiques et/ou institutionnelles ne correspondent plus aux défis du temps, aux impératifs de l'heure ou au ni veau atteint par la technologie. Un système "ouvert" implique de laisser au peuple historique toute latitude pour modifier ses institutions.

Le système freyerien est, en dernière instance, plus démocratique que le démocratisme normatif qui, à notre époque, prétend, sur l'ensemble de la planète, être la seule forme de démocratie possible. Quand Freyer parle de « droit à l'action » (cf. supra), corollaire d'un « devoir éthique d'action », il réserve au peuple un droit d'intervention sur la trame du devenir, un droit à façonner son destin. En ce sens, il précise la vision machiavelienne du peuple dépositaire de la  virtù, oblitérée, en cas de tyrannie, par l'arbitraire du tyran individuel ou oligarchique.

 

Relire Freyer

 

Relire Freyer, contemporain de Schmitt, nous permet de déployer une critique du normativisme juridique, au nom de l'imbrication des peuples dans l'histoire et du décisionnisme. L'État de droit, c'est finalement un État qui se laisse réguler par la virtù enfouie dans l'âme collective du peuple et non un État qui voue un culte figé à quel­ques normes abstraites qui finissent toujours par s'avérer désuètes.

­Et cette volonté freyerienne de s'imbriquer totalement dans le réel pour échapper aux mondes stérilisés des réductionnismes matérialistes, économistes et caricaturalement normatifs que nous lèguent les marxismes et libéralismes vulgaires, ne pourrait-on pas la lire parallèlement à Péguy ou aux génies de l'école espagnole : Unamuno avec sa dialectique du cœur, Eugenio d'Ors, Ortega y Gasset ?

 

► Robert STEUCKERS, Vouloir n°37/39, 1987.


1) Hans FREYER, Machiavelli (mit einem Nachwort von Elfriede Üner), Acta Humaniora, Weinheim, IX/133 p.

2) Hans FREYER, Preussentum und Aufklärung und andere Studien zu Ethik und Politik (herausgegeben und kommentiert von Elfriede Üner), Acta Humaniora, Welnheim, 222 p.

 

¤ Compléments bibliographiques :

 

  • Les Fondements du monde moderne - Théorie du temps présent, H. Freyer, Payot, coll. Bibliothèque scientifique, 1965.
  • « Romantisme et conservatisme. Revendication et rejet d'une tradition dans la pensée politique de Thomas Mann et Hans Freyer », C. Roques, in : Les romantismes politiques en Europe, dir. G. Raulet, MSH, avril 2009.
  • « Die umstrittene Romantik. Carl Schmitt, Karl Mannheim, Hans Freyer und die "politische Romantik" », C. Roques, in : M. Gangl/ G. Raulet (dir.), Intellektuellendiskurse in der Weimarer Republik. Zur politischen Kultur einer Gemengelage, 2. neubearbeitete und erweiterte Auflage, Frankfurt/M., Peter Lang Verlag 2007 [= Schriftenreihe zur Politischen Kultur der Weimarer Republik, Bd. 10]. [cf. sur ce thème : Les formes du romantisme politique]
  • Nationalité et Modernité, D. Jacques, Boréal, Montréal, 1998, 270 p.
  • The Other God that Failed : Hans Freyer and the Deradicalization of German Conservatism, J. Z. Muller, Princeton Univ. Press, 1987. Cf. [pt] Reinterpretar Hans Freyer.
  • « The Sociological Theories of Hans Freyer : Sociology as a Nationalistic Program of Social Action », Ernest Manheim in : An Introduction to the History of Sociology, H. E. Barnes (éd.), Chicago Univ. Press, 1948.

 

¤ Citation :

 

  • « Il faut une volonté politique pour avoir une perception sociologique ».

 

¤ Liens :

 

 

¤ Évocations diverses :

 

1) LE CARACTÈRE INHUMAIN DU CAPITALISME : Mais comment se présente plus précisément le capitalisme moderne comme système d’action? Un grand sociologue humaniste du XXe siècle, Hans Freyer, peut nous aider à répondre. Dans son livre Theorie des gegenwärtigen Zeitalters (Théorie de l’époque actuelle, 1956), il parle des "systèmes secondaires" comme de produits spécifiques du monde industrialisé moderne et en analyse la structure avec précision. Les systèmes secondaires sont caractérisés par le fait qu’ils développent des processus d’action qui ne se rattachent pas à des organisations préexistantes, mais se basent sur quelques principes fonctionnels, par lesquels ils sont construits et dont ils tirent leur rationalité. Ces processus d’action intègrent l’homme non comme personne dans son intégralité, mais seulement avec les forces motrices et les fonctions requises par les principes et par leur mise en œuvre. Ce que les personnes sont ou doivent être reste en dehors. Les processus d’action de ce genre se développent et se consolident en un système répandu, caractérisé par sa rationalité fonctionnelle spécifique, qui se superpose à la réalité sociale existante en l’influençant, la changeant et la modelant. Voilà la clé qui permet d’analyser le capitalisme comme système d’action. (S. Magister)

 

2) En ce qui concerne la tradition sociologique allemande, qui est marquée par l'influence de nombreuses conceptions philosophiques (notamment celles du système de Hegel), elle subit en particulier l'influence néfaste de la distinction opérée par Wilhelm Dilthey (1833-1911) entre les systèmes de culture (art, science, religion, morale, droit, économie) et les formes «externes» d'organisation de la culture (communauté, pouvoir, État, Église). Cette dichotomie fut encore aggravée par Hans Freyer (1887-1969) qui distinguait les « contenus objectifs » ou « signification devenue forme », qui sont les « formes objectivisées de l'esprit » dont l'étude relève des « sciences du logos », de leurs « être et devenir réels » qui sont l'objet des « sciences de la réalité ». Le caractère insupportablement artificiel de cette opposition ne saurait être mieux démontré qu'en rappelant que dans cette conception, le langage lui-même est défini comme un « assemblage de mots et de significations, de formes mélodiques et de formations syntaxiques », comme si on pouvait appréhender le langage indépendamment de l'organisation sociale des hommes qui l'emploient. Bien entendu, les langues (Langage) présentent aussi des structures intellectuelles qu'on ne peut expliquer par la sociologie sans tomber dans l'erreur du sociologisme; mais ces structures ne constituent que la moitié du problème. En outre, les entités intellectuelles objectives ne peuvent jamais être opposées au devenir social, mais seulement former avec lui une corrélation fonctionnelle dans des complexes d'action culturelle (A. Silbermann). Dilthey lui-même adoptait à cet égard une position radicalement plus ouverte, aussi bien dans ses explications réelles, opposées à son projet, que dans beaucoup d'autres occasions, comme le prouvent ses tentatives pour établir les fondements psychologiques des sciences humaines et ses tentatives périodiques pour mettre sur pied une éthologie empirique (que l'on pourrait également définir comme une science empirique de la culture). Le danger que recèle cette distinction consiste avant tout dans ce qu'elle ouvre la voie à une sorte de distinction hiérarchique à une culture « supérieure », en quelque sorte proche de l'« esprit », et une culture « inférieure » ; celle-ci se confond facilement avec le concept de « civilisation » (matérielle), ce qui introduit dans toute cette approche du problème une évaluation patente. Il semble préférable de passer de ces conceptions fortement teintées de philosophie à une approche plus réaliste. Après la destruction totale de l'ancienne théorie des aires culturelles par l'ethnologie moderne, la dernière possibilité apparente de séparer certains contenus culturels de leurs rapports fonctionnels avec la société a définitivement disparu. (R. König)

 

3) La conférence « Normes éthiques et politiques » que Freyer a tenue en mai 1929 devant la Kant-Gesellschaft, souligne encore la primauté de l'État [comme fondement de la vie politique] sur le peuple. « L'État est celui qui rassemble et éveille les forces du peuple au service d'un projet culturel caractéristique ; sa politique est le fer de lance dans lequel le peuple devient historique ». Deux ans plus tard [en pleine crise de la République de Weimar], Freyer voit la signification véritable de la « révolution de droite  » dans la résolution avec laquelle elle mobilise le peuple contre l'État. Et trois ans plus tard, il est avéré, pour Freyer, « qu'il existe aussi un véritable esprit du peuple en dehors des frontières politiques de l'État-Nation ». L'esprit du peuple, lit-on alors dans un sens tout à fait national-populiste, « doit être autre chose qu'un contexte fondé sur la politique. Le peuple doit être autre chose qu'un rassemblement d'hommes au sein d'un système étatique » (1934). Les singulières variations qui caractérisent la définition par Freyer du rapport de l'État et du peuple sont bien mises en valeur chez Üner (Soziologie als „geistige Bewegung“. Hans Freyers System der Soziologie und die „Leipziger Schule“, 1992). (S. Breuer)